venerdì 22 giugno 2012

Asta per il Fondo Giovanni Mulazzani

Avrà luogo giovedì 28 giugno, alle ore 19.00, presso la galleria l'Affiche di Milano, la già annunciata Asta del Fondo Giovanni Mulazzani per le borse di studio  "Giovanni Mulazzani" al MiMaster di illustrazione Editoriale.


Il Fondo raccoglie opere di Mulazzani e di artisti italiani e internazionali che sono già visibili su: fondomulazzani.blogspot.it

Hanno aderito al Fondo oltre 150 artisti e illustratori tra cui: Pablo Amargo, Emiliano Ponzi, Lorenzo Mattotti, Gianni De Conno, Libero Gozzini, Olga&Andrej Dugin, Spider, Shout, Gianluigi Toccafondo, Guido Scarabottolo, Conc, Arianna Papini, Beppe Giacobbe, Ivan Canu e molti altri.

Il Fondo nasce da un'idea di Libero Gozzini con il coordinamento della famiglia Mulazzani, Guido Scarabottolo, la galleria l'Affiche e del MiMaster illustrazione.

La dedica della borse di studio MiMaster a Giovanni Mulazzani e la nascita del Fondo vogliono ricordare uno dei maggiori illustratori italiani che è stato maestro diretto o indiretto di un'intera generazione di artisti.

Gianluigi Toccafondo

Conc

Beppe Giacobbe

Franco Matticchio

Guido Scarabottolo

Rodolfo Viganò

giovedì 21 giugno 2012

I funerali dell'anarchico Pinelli


I funerali dell'anarchico Pinelli, grandiosa opera di Enrico Baj, doveva essere inaugurata il 17 maggio 1972, nella Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale a Milano. Quella mattina però fu ucciso, in strada, il commissario Luigi Calabresi e la mostra fu rinviata. Quarant'anni dopo, oggi 21 giugno 2012, l'opera di Baj torna nella sua sede naturale milanese e sarà visibile, gratuitamente, fino a settembre.


Baj, un quadro
Andrea Rauch


Enrico Baj era anarchico come Pino Pinelli. Con qualche differenza, però. Baj era un artista affermato in tutto il mondo, Pinelli un ferroviere il cui unico momento di notorietà era stata la tragica morte.
Baj aveva dedicato a Pinelli la sua più grande opera, I funerali dell'anarchico Pinelli appunto; tre anni di lavoro per una grande istallazione con sagome, stracci, paillettes, passamanerie, sete e broccati. Un'opera dove il dolore di Licia Pinelli e delle figlie si scontra con l'indifferenza dei generali, dove mani contorte si affacciano dalla finestra della questura di Milano, dove un uomo precipita urlando nel vuoto. I funerali... furono la grande pittura civile dell'epoca della strategia della tensione, una pittura intensa e dolente, partecipata e austera.


Doveva essere presentata in una grande mostra a Palazzo Reale, Milano, nella Sala delle Cariatidi. La scelta di quell'opera creò titubanza e imbarazzo per la sua scoperta e dichiarata collocazione politica. Il socialista Paolo Pillitteri (che in seguito fu anche sindaco di Milano) la presentò in catalogo, a nome dell'amministrazione, storpiandone il nome (Baj, un quadro, fece titolare) e non citando mai l'episodio della morte di Pinelli se non come "... un tema di attualità".




La mostra, anche deprivata del suo legittimo titolo, non fu mai inaugurata perché il 17 maggio 1972, giorno fissato per il vernissage, ignoti assassini freddarono sulla porta di casa il commissario Luigi Calabresi, che, come raccontano le cronache, tanta parte aveva avuto nella vicenda.
In una Milano lucubre e grigia, solcata dalle sirene incessanti delle pantere della polizia, l'esposizione fu rinviata sine die. Per rivedere l'opera in Italia si dovrà aspettare fino al 1975 quando I funerali... furono esposti a Firenze, alla Festa Nazionale de l'Unità.


Quella mattina del maggio 1972 Enrico Baj si aggirava per le sale di Palazzo Reale chiedendo a tutti: "Perché vorranno mai rinviare la mostra? Che c'entro io con il commissario Calabresi?"
Come se non lo avesse saputo!

da Socialdesignzine, 2003




martedì 19 giugno 2012

Le Strenne Olivetti

Per molti anni le Strenne Olivetti sono state sinonimo di libri belli, raffinati, splendidamente curati e illustrati e, soprattutto, introvabili.
Sì, perché procurarsene uno era ai limiti del disumano. Non si riusciva mai ad essere nella mail list giusta (sospettiamo ancora che fosse riservata a direttori di banca, capitani d’industria, grand commis dello stato…) e a nulla valeva nemmeno la raccomandazione di Giorgio Soavi che quelle strenne aveva voluto e organizzato, scelto e curato fin dalle origini.

Kafka, Metamorfosi, illustrazione Jean-Michel Folon, 1973

Nel corso del tempo ne avevamo raggiunta qualcuna (corrompendo il tipografo, Gianni Biolcati, allora da Elli & Pagani) oppure piagnucolando con gli autori che, per loro misericordia ce ne trovavano una copia dalla loro scorta. Erano libri di grande formato, 25x32 cm., rilegati in tela con etichetta sovraimpressa, carta Tintoretto Fedrigoni, ampi margini, testo graziato di ottima leggibilità. Sospettiamo che i direttori di banca di cui sopra, cui non crediamo importasse molto di Milton Glaser, Folon, Topor, Pericoli e Paul Davis, usassero quegli introvabili volumi come coffee table books, alla faccia nostra.

Grimm, Fiabe scelte, illustrazione di Emanuele Luzzati, 1987

I tempi cambiano, quelli di Olivetti sono ormai inevitabilmente trascorsi, ma confessiamo che ci ha fatto un certo effetto vedere che oggi la Fondazione Archivio Olivetti mette in normale vendita le copie rimaste di quelle strenne. A prezzi certo non popolari (a volte proprio da bibliofili) ma, ricordando i nostri sforzi di allora, siamo un po’ invidiosi di chi oggi può semplicemente ‘aggiungere i titoli al carrello’, inviare un bonifico e ricevere l’oggetto del desiderio.

Gogol, Racconti di Pietroburgo, illustrazioni di Milton Glaser, 1987



Qualche titolo è inevitabilmente esaurito (dalle prime uscite sono passati più di quarant'anni) ma quello che resta è comunque succulento e si passa dalle Cronache Marziane di Ray Bradbury illustrate da Folon, ai Racconti di Pietroburgo di Gogol con i disegni di Milton Glaser, alle Fiabe dei Grimm con Lele Luzzati e via elencando.
Fuori catalogo il meraviglioso Pinocchio di Roland Topor e le kafkiane Metamorfosi di Jean-Michel Folon. Questi ultimi però ce li eravamo procurati a suo tempo e ce li teniamo ben stretti.

Collodi, Pinocchio, illustrazioni di Roland Topor, 1972


domenica 17 giugno 2012

Oskar Schlemmer: il Balletto triadico

Oskar Schlemmer, 1931

"Come si comportano i ballerini con questi costumi? È ancora possibile danzare con essi?
Si comportano in vario modo. Gli uni, il cui ideale è rappresentato alla libera danza come mezzo di espressione immediata, rifiutano nettamente questi costumi 'innaturali'. Dopo i primi salti avrebbero già distrutto il costume. Gli altri vi intravedono nuove possibilità per oltrepassare i limiti del puro movimento del corpo. Non è facile danzare con questi costumi, anzi credo che ciò richieda un alto grado di disciplina corporea per fondere corpo e costume in un'unica unità." (Conversazione con Oskar Schlemmer, 1928)


Anche se la prima idea e la maturazione del balletto è precedente, (a cavallo della prima guerra mondiale nella seconda metà degli anni dieci), il Balletto triadico di Oskar Schlemmer è generalmente considerato una delle punte più alte e significative della stagione progettuale del Bauhaus.
Schlemmer concepì l’opera come una corrispondenza ‘matematica’ e ‘proporzionale’ tra uomo e spazio, con un ritmo che doveva servire ad un’ideale ‘riunificazione con il cosmo’.





“La prima rappresentazione del Balletto triadico – scrive Marina Bistolfi nell’ancor oggi fondamentale Oscar Schlemmer, Scritti sul teatro, Feltrinelli, 1981 - ha luogo il 30 settembre 1922 (quindi già in piena stagione Bauhaus) al Landestheater di Stoccarda. La struttura del balletto è fondata sulla triade, l’accordo dei tre, poiché in questo numero l’egoismo dell’uno e la contrapposizione dualistica vengono superati per far posto al collettivo; l’uno il due e il tre si alternano e fondono: tre sono i danzatori, una donna e due uomini, tre le sezioni del balletto composto da dodici danze eseguite da diciotto costumi: di tre elementi si compongono i raggruppamenti formali: forma colore spazio, altezza profondità larghezza, sfera cubo piramide, rosso blu giallo.”



Momento essenziale del balletto è per Oskar Schlemmer il costume, da cui si sviluppa la ‘geometria della scena danzata’. Il corpo del ballerino deve adattarsi necessariamente all’astrattezza e alla rigidità del costume stesso ed è quindi il mezzo che permette di abbandonare la narrazione emotiva o naturalistica e assumere una ragione ‘costruttiva e formale’ e non più, o non solo, ‘decorativa’.


“La scena come luogo dell’evento temporaneo offre il movimento della forma e del colore: in primo luogo nella sua configurazione primaria, come forme in moto (cromatiche o meno, lineari, di superficie ovvero plastiche), spazio e quadri architettonici convertibili. Il palcoscenico visuale assoluto consisterebbe – in teoria – in un simile, caleidoscopico gioco variabile all’infinito, ordinato secondo una succesione regolare. L’uomo, l’elemento animato, verrebbe bandito dall’ambito visuale di un tale organismo meccanico. Egli si troverebbe invece come ‘manovratore totale’, al quadro comandi della centrale, dal quale governerebbe la festa dell’occhio.” (Oskar Schlemmer, 1925)


mercoledì 13 giugno 2012

Libri recuperati. 22. Orazio


Libri che non avevamo segnalato perché il nostro blog non esisteva ancora. Libri che abbiamo segnalato altrove. Libri che meritano comunque di essere segnalati e ricordati. Libri mai usciti in Italia. Libri memorabili per testi e immagini. Libri.

22. Michael Foreman. Orazio



Gli ippopotami, da che mondo è mondo, sguazzano nel fango e ci si trovano bene. Il loro mondo non si spinge più in là della foresta e della riva del fiume. Ma Orazio vuol vedere, viaggiare, conoscere cose nuove e un giorno parte per la grande città, sporca, indaffarata, caotica, dove gli aquiloni non riescono a volare e la gente si agita come formiche impazzite.


Orazio è forte e trova lavoro come trasportatore (con la grande bocca e la sua mole imponente è l'ideale) finché un giorno il pianoforte a coda del professor Pizzetti, famoso concertista, si incastra tra le sue mandibole e il pianista è costretto a suonare in quella posizione, scomoda ma singolarmente eccitante. Il successo è clamoroso perché al suono della musica Orazio si lascia andare alle fantasie della danza. I due concertisti (Orazio e il professore) passano da trionfo a trionfo finché l'ippopotamo curioso non sente forte la nostalgia di casa e la voglia di raccontare le sue esperienze agli amici. Orazio torna al suo fiume.


"Com'era il mondo?" gli chiese suo padre quando lo vide.
"Costruiscono le strade sui campi di grano, buttano le sporcizie sulla neve e fanno le strade sulle margherite - rispose Orazio - Ma io ho potuto fischiare, danzare e girare il mondo."


Luci e ombre quindi, ma questa è forse la strada della conoscenza e questi i costi da pagare. I giovani ippopotami infatti sono già partiti, per seguire l'esempio di Orazio.

Orazio di Michael Foreman è un libro del 1974 (in Italia fu pubblicato dalla Emme di Rosellina Archinto) e risente fortemente dei quarant'anni passati da allora. Sfogliando le pagine ci si squaderna davanti tutta la fantasia e l'eleganza della grafica pop inglese di quegli anni (quella che prese esempio da Yellow Submarine, per dire), ma anche il suo messaggio garbatamente ecologista, la fiducia ironica nell'uomo e nella fantasia come forza motrice di un futuro possibile.

Non cerchiamo di iscrivere un grande artista come Michael Foreman nel cerchio stretto di un'ingenua ideologia hippie ma certo qua e là, in queste pagine, quel sogno grafico fa capolino e le profuma di nostalgia. Orazio crescerà e sarà un ippopotamo migliore perché ha visto e capito. Ma sarà anche sempre in accordo con la sua natura; lo stesso tema che sarà ripreso, qualche anno dopo dal Cornelius di Leo Lionni, dove l'esperienza del coccodrillo che riesce a stare in piedi e quindi a vedere più lontano sarà il punto di partenza, forse meno ingenuo ma altrettanto consapevole, per una evoluzione equilibrata e possibile.

Michael Foreman, Orazio, 1974, Emme edizioni.

domenica 10 giugno 2012

Maestri. 34. José Muñoz

I disegni di José Muñoz per Lo straniero di Albert Camus, edito da Gallimard Futuropolis saranno in mostra da giovedi 14 giugno (inaugurazione alle ore 18,30) presso la Galerie Martel, rue Martel 17, Parigi. La mostra sarà visitabile fino al 22 settembre.





José Muñoz nasce a Buenos Aires nel 1942. Studia disegno con Alberto Breccia e Hugo Pratt.  Verso i 18 anni inizia a pubblicare lavori interamente disegnati da lui su testi di Hector Oesterheld. All'inizio degli anni Settanta si trasferisce in Spagna, dove conosce il connazionale  Carlos Sampayo. Insieme creano il personaggio di Alack Sinner che darà loro il successo e che è, oggi, uno dei capisaldi della storia del fumetto.

L'étranger, disegni di José Muñoz 

L'étranger, disegni di José Muñoz
Bianco e nero per José Muñoz

Credo che bisognerà cominciare dall’uso del bianco e nero. Bianco e nero come tecnica di disegno ma anche come sostanza morale dell’immagine, della singola immagine, e poi del racconto.
Il bianco e nero di José Muñoz è violento, quasi gestaltico, fonde e avvolge i personaggi che escono dall’ombra o si stagliano contro la luce. Ma suggerisce anche un atteggiamento preciso, giudizi di valore netti, non rifugge e anzi postula l’approfondimento e la chiarezza di esposizione. I tratti di penna che si staccano dalle masse nere segnano reticoli di rughe o ondular di capelli, pieghe di tessuti o efebici profili di donna, precisano i contesti spaziali e narrativi.

Alack Sinner, disegni di José Muñoz

Alack Sinner, disegni di José Muñoz 

Ma quello che domina nel primo impatto con il disegno è sicuramente la definizione forte di volumi che diventano la città-background di Alack Sinner, con le sue storie interne, personali e complessive, i suoi piccoli o grandi drammi privati che diventano esemplari drammi epocali (il Vietnam, la droga, il razzismo, il fanatismo, la violenza…)

D’altra parte, sia detto per inciso e senza nemmeno bisogno di soffermarsi troppo, è il retaggio, questo, del fumetto argentino della seconda metà del Novecento. Ricorda Pratt e Breccia, Solano Lopez e Oesterheld. Di queste lezioni si nutre il giovane Muñoz degli esordi. Dell’Eternauta e di Mort Cinder, della retorica sconsolata del primo Corto Maltese e della tragedia argentina (e qui si entra a piedi uniti nella storia intera di una generazione e di una nazione), della giunta militare di Videla e dei desaparecidos. E in un ideale passaggio di testimone grafico, vedremo la lezione artistica di Muñoz ripresa, vent’anni dopo e con esiti narrativi completamente diversi, dal Frank Miller di Sin City.

Alack Sinner, disegni di José Muñoz testi di Carlos Sampayo

Alack Sinner, disegni di José Muñoz testi di Carlos Sampayo
Alack Sinner è il personaggio principale, mitico, anche se non l’unico, e si muove in una New York violentemente in bianco e nero; anche se non ci sarebbe bisogno di ricordarlo, va a cercare i suoi archetipi investigativi e letterari più immediatamente percettibili nei Philip Marlowe e nei Sam Spade, nella hard boiled school di Chandler e Hammett.
Ma anche nel taglio cinematografico delle inquadrature delle strisce; in quell’alternarsi di primi piani e campi medi e lunghi, nella ricerca della sottolineatura visiva che, per somiglianza o contrasto, riesca a definire meglio il momento narrativo. C’è ovunque il grande amore di Muñoz e Sampayo per il cinema con ricordi continui, citazioni affettuose, rimandi evidenti. Nelle storie di Alack Sinner si riconoscono i richiami da Otto Preminger (L’uomo dal braccio d’oro) e da Alfred Hitckhock (Psyco) e certi personaggi, segnatamente il capitano di polizia Demetrius, sembrano ricalcati dallo stampo da cui era uscito l’infernale Quinlan di Orson Welles.

Alack Sinner, disegni di José Muñoz 

Alack Sinner, disegni di José Muñoz

La durezza e il disincanto di Alack sono temperati da una continua ricerca del senso delle cose, da una logica che permetta di continuare a sopravvivere. Perché lo fai Alack Sinner? si intitolava la prima raccolta delle storie di Muñoz e Sampayo edita da Milano Libri nel 1976. Già, perché lo fai? Perché ricercare il senso in una vicenda urbana, in un reticolo di storie particolari che si muovono in un microcosmo impazzito, degno al più di essere investigato da un entomologo?

Alack Sinner è un uomo che comunque non cessa mai di pensare, che si pone domande anche se sa che non ci saranno risposte. È immerso nella violenza che non ama e che deve sopportare come portato inevitabile della società. È un dirty Callaghan che è uscito dalla polizia e che si è rassegnato all’inevitabilità e all’inutilità del male. Ma Clint Eastwood arriverà alle conclusioni di Muñoz e Sampayo moltissimi anni dopo e quell’immaginario trucido e sgangherato, violento, perverso, che sarà il sostrato di Million dollar Baby e di Mystic River, noi lo troviamo già completamente squadernato in Viet Blues o in Egli, la cui bontà è infinita.

Alack Sinner, disegni di José Muñoz

È forse il cinismo, o la solitudine, della società che resta il collante delle storie di Muñoz e Sampayo.
Scrive Goffredo Fofi che la malinconia che serpeggia in queste storie «[…] è il risultato delle regole di una società che permette individualità solo ai superricchi e ai superarrivisti, che destina le maggioranze all’anomia o al disastro, e le ribellioni alla sconfitta […]».

Ci sono folle e storie, delitti e castighi, ma l’uomo è solo di fronte alla vita che gli è toccato vivere e che non è granché. E allora perché lo fa, perché dovrebbe farlo, Alack Sinner? Perché dovrebbero farlo Muñoz e Sampayo? Perché dovrebbe farlo José Muñoz?


Testo rielaborato da: Andrea RauchIl mondo come Design e rappresentazione, Usher arte, 2009.


venerdì 8 giugno 2012

Illustrazione d'antan. 4. Aubrey Beardsley

Aubrey Beardsley
Aubrey Vincent Beardsley nasce il 21 agosto 1872 a Brighton. Fin da piccolo viene avviato dalla madre Ellen a studi letterari e musicali, nei quali dimostra tutto il suo precoce talento. Nel 1888, dopo un soggiorno a Londra e a Epson, la famiglia rientra a Brighton dove Aubrey frequenta il Liceo e pubblica i suoi primi disegni. Tornato a Londra, nel 1889, frequenta ambienti artistici e letterari e il pittore Edward Burne-Jones lo aiuta a entrare alla Westminster School of Art. 

Nel 1893 esegue i disegni per la Morte d’Artù di Thomas Mallory. Nel 1894 Beardsley si lega d’amicizia con lo scrittore Oscar Wilde e illustra per lui Salomè, che riceve grandi apprezzamenti ma anche grandi critiche per l’ambiguità e la sensualità delle figure. Nello stesso anno comincia a collaborare con la rivista “The Yellow Book”. Nel 1897 pubblica le illustrazioni per Lisistrata di Aristofane e per Volpone di Ben Johnson. Si trasferisce poi in Costa Azzurra, sperando che il clima lo aiuti a guarire dalla tubercolosi contratta negli anni dell’adolescenza. Morirà a Mentone l’anno seguente, nel 1898, ad appena ventisei anni di età.

Aubrey Beardsley: autoritratto


Il trionfo del bianco e nero

Se è vero, come dice il poeta, che «muor giovane colui ch’al cielo è caro» allora Aubrey Beardsley, che in poco più di venticinque anni consumò una parabola quasi perfetta, osannato, vezzeggiato, combattuto da amici e avversari dovette essere molto caro agli dei!
In Beardsley si assommarono infatti tutti gli aspetti peculiari della cultura figurativa e grafica dell’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento: dandysmo ed elitarismo, un certo fondo mai del tutto sopito di puritanesimo vittoriano, una certa qual sospettosità verso il modernismo e le culture della società industriale, il ripiegarsi su un passato linearmente (e quindi visivamente) puro, preraffaelita (anche se di una definizione così Beardsley non avrebbe certo voluto sentir parlare).




L’opera grafica di Beardsley, vastissima se si considerano i pochi anni in cui si produsse, nasce come un frutto maturo nella sua società di origine e, pur con tutti i possibili riferimenti al passato, recente e lontano, si pone, nei fatti, come un eccipiente notevole di modernità e progresso. La cultura grafica e iconografica del nostro pesca a piene mani negli Arts and Crafts di William Morris (e non è certo insensibile al neogotico che sarà poi una delle cifre stilistiche di Arthur Rackham) e nell’opera di William Blake, per esempio, e il suo gusto per la linea, per l’alternarsi simbolicamente ieratico del bianco e del nero in una bidimensionalità pressoché perfetta, lo farà essere, comunque sia, una figura di ineludibile spicco del nascente movimento liberty.





Con molti distinguo naturalmente perché il decorativismo e la ripetitività grafica del liberty, quel certo non so che di ridondante e gratuito, che rimane anche nei migliori esempi di quell’esperienza artistica, in Beardsley cercano costantemente di diventare concetto, provocazione, narrazione. La sua opera grafica corre sempre su questo doppio binario: una estrema accuratezza formale, ai limiti della leziosità, e al contempo una forza suggestiva, simbolica ed evocativa che riesce sempre a colpire e a provocare (anche a irritare se si considerano le reazioni della società del tempo alla pubblicazione dei disegni della Salomè di Oscar Wilde, che fu uno dei grandi mentori dell’artista, o a quelli della Lisistrata di Aristofane) proprio per l’essenzialità della  sua grande carica iconica. Una carezza e un pugno, nell’ingenua e coltissima gioventù di Beardsley.


Testo tratto da: Andrea Rauch, Graphic Design, Mondadori 2006.