lunedì 31 ottobre 2011

Arrivederci a Lucca Comics!

Finisce oggi l’annuale kermesse di Lucca Comics & Games. Con un successo, se possibile, ancora più grande delle più grandi previsioni. Folla strabocchevole ed entusiasta, ressa nelle vie del centro da metrò nelle ore di punta, migliaia di giovanotti e giovanotte vestiti da Capitani Uncini, mostri spaziali, Cappuccetti rosso e Bianchenevi, guerrieri medievali, superoi assortiti, damine incipriate, manga vari. Padiglioni affollatissimi, vivaci, chiassosi, entusiasmo alle stelle. Tutto bene dunque?


Tutto benissimo (speriamo per gli espositori e gli organizzatori!), e per chi partecipava  attivamente alla festa. Un po’ meno bene per chi la festa l’ha dovuta subire. Intendiamoci: non staremo a cercare il pelo nell’uovo che si deve pur rompere per fare la frittata, né vogliamo lamentarci del brodo troppo grasso. Ma Lucca è una città meravigliosa che dovrebbe essere trattata da tutti (soprattutto da chi l’amministra e la gestisce!) con attenzione e rispetto, e con attenzione e rispetto dovrebbero essere trattati coloro che vengono a goderne.

Qualcosa allora da ridire
sugli otto chilometri di coda per entrare in città, con uscita ‘consigliata’ a Capannori e conseguente interminabile fila (oltre due ore!); qualcosa da ridire sull’ubicazione dell’unico parcheggio del salone, a quasi due chilometri dai padiglioni e con una navetta ‘fantasma’ che, una volta materializzatasi, portava solo al capo opposto della città, alla stazione, lasciando all’incauto visitatore un bel tragitto da farsi comunque a piedi; qualcosa da ridire sul servizio ferroviario approntato, simile ad un continuo e grottesco ‘assalto alla diligenza’; qualcosa da ridire dunque, senza indugiare sui piccoli disservizi di programma che possiamo considerare fisiologici, sull’organizzazione generale della kermesse che è diventata, per i disagi che ha provocato a mezza regione, un vero e proprio problema di ordine pubblico.

Ma i giovani si sono divertiti, gli appassionati hanno goduto, i collezionisti hanno comprato. Arrivederci quindi all’anno prossimo. Con un successo, auguriamo, ancora superiore. Con un’organizzazione, magari, un tantinello migliore! 

















domenica 30 ottobre 2011

Questo è Halloween!

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Carl Barks, Paperino e le forze occulte (tit. italiano), 1956

Nel medioevo, i bambini non aspettavano in paziente attesa che i loro giocattoli scendessero dal camino. Generalmente travestiti e riuniti in bande che l'Antico francese denomina, per tale ragione, guisarts, vanno di casa in casa, a cantare e a porgere gli auguri, ricevendo in cambio frutta e dolci. Fatto significativo, essi evocano la morte per far valere la loro credenza. Se anche non possedessimo questa preziosa indicazione, e quella, non meno significativa, del travestimento che trasforma gli attori in spiriti o fantasmi, ne avremmo altre, tratte dallo studio delle questue infantili. È noto che tali questue non sono limitate al Natale. Si succedono per tutto il periodo critico dell'Autunno, quando la notte minaccia il giorno come i morti diventano tormentatori dei vivi. Le questue di Natale cominciano parecchie settimane prima della Natività, generalmente tre, stabilendo dunque il nesso con le questue, anch'esse in costume, della festa di san Nicola che risuscitò i bambini morti; e il loro carattere è ancor meglio contraddistinto nella questua iniziale della stagione, quella di Halloween, divenuta vigilia di Ognissanti per decisione ecclesiastica, in cui, ancora oggi nei paesi anglosassoni, i bambini mascherati da fantasmi e da scheletri perseguitano gli adulti a meno che costoro non riscattino la loro tranquillità mediante regalucci. Il progredire dell'Autunno, dal suo inizio al solstizio che segna il salvataggio della luce e della vita, si accompagna quindi, sul piano rituale, a un movimento dialettico le cui principali tappe sono: il ritorno dei morti, la loro condotta minacciosa e persecutrice, la fissazione di un modus vivendi con i vivi che consiste in uno scambio di servigi e di doni, infine il trionfo della vita quando, a Natale, i morti ricolmi di regali abbandonano i vivi per lasciarli in pace sino all'Autunno successivo. è sintomatico che i paesi latini e cattolici, sino al secolo scorso, abbiano messo l'Accento sulla festa di san Nicola, cioè sulla forma più misurata della relazione, mentre i paesi anglosassoni adottino nello stesso tempo le due forme estreme e antiche di Halloween, in cui i bambini fanno i morti per rendersi esattori degli adulti, e di Christmas, in cui gli adulti ricolmano i bambini di dolci per esaltare la loro vitalità?



Claude Lévi-Strauss, Babbo Natale suppliziato, in Claude Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Feltrinelli, Milano 1967.




Dolcetto o scherzetto?

Insieme alla vigilia di Ognissanti, Halloween per i popoli di lingua inglese, torna la stucchevole moda del "dolcetto o scherzetto". Stucchevole perché, come molte altre mode di questi anni, totalmente avulsa da ogni tradizione consolidata, e importata dagli Stati Uniti in anni recenti a scopo eminentemente e/o esclusivamente commerciale.

Come alla festa della mamma si donano fiori, a quella dei fidanzati cioccolatini e a quella del papà bottiglie di brandy (tutte ricorrenze queste, fortemente auspicate dalle aziende produttrici), così per Halloween compaiono nei negozi gadget di ogni tipo a forma di "morte secca", fantasmini, spiritelli e diavoletti. In qualche paese i bambini hanno cominciato a travestirsi, nell'occasione, e vanno in giro a chiedere dolci. Tant'è!

Naturalmente da noi la tradizione non esiste (o perlomeno non esiste più!) e quando fu pubblicato il fumetto di cui alle strisce sopra, si pensò bene di trasformare, nel testo, Halloween in 'carnevale'.
Qualche rimasuglio di contaminazione rituale esisteva comunque; in alcuni paesi della Toscana si usava, fino agli anni '60, scavare le zucche e trasformarle in "morti secche", dotate di fessure per occhi naso e bocca e con una candela all'interno a dar luce spettrale, ma il prodotto era artigianale e episodico, non aveva ricorrenze destinate nè zucche sontuose e gigantesche come quelle del New England.


Da dove veniva allora questo embrione di tradizione. Da qualche preesistenza di culto dei morti? Dai ricordi di un soldato americano di passaggio durante la guerra? Dalla necessità di usare la polpa della zucca per i tortelli (negli Usa si prepara, ad esempio, un ottimo pumpkin cake) e quindi di utilizzare la buccia per far giocare i bambini? Non lo sappiamo e l'ipotesi più credibile è, ancora una volta come per tante tradizioni, quella della teoria del 'soffiare sulla brace'. Le scintille si sperdono ovunque senza che si riesca a sapere più da quale fuoco siano state originate. Comunque sono sparse dappertutto. Oggi ormai sopratutto nei negozi di gadget. (Originariamente pubblicato in Socialdesignzine g.c.)

Il breve filmato e le illustrazioni, qui sotto, che accompagnano il pezzo, sono di Tim Burton, cui si deve una delle visitazioni più intelligenti del mito di Halloween. Le immagini sono parte del libro, che è anche il primo abbozzo d'idea per il film di animazione, e sono state in origine pubblicate dalla Disney Press nel 1993.



sabato 29 ottobre 2011

Storie di dei, di uomini ed eroi

Qui incomincia la storia degli dei.
Incomincia in un tempo così lontano che ora nessuno se la potrebbe ricordare, ma per fortuna a noi l'hanno raccontata i grandi poeti dell'antichità. E a loro l'ha sussurrata il vento, l'ha borbottata il mare, l'ha urlata la tempesta, perché il mare il cielo e la terra ricordavano bene quello che era successo allora, all'inizio della storia.
All'inizio quindi c'è un dio soltanto, è vuoto, senza forma né colore e si chiama Caos. Caos è immobile e silenzioso, sta ad aspettare. Per molto tempo non accade proprio nulla finché, proprio da Caos, incomincia a nascere qualcosa. (Laura Fischetto)


Parlando, in un recente post, della donazione di disegni che Letizia Galli ha fatto al Centre de l'Illustration de Moulins, abbiamo accennato a una mostra, in preparazione al Museo Archeologico di Napoli, con i disegni che erano andati a far parte di due libri sulle storie mitologiche greche, edite in Italia da Lapis.

I due libri (La Mitologia, Le avventure degli dei e Gli eroi e gli uomini) sono quelli che ormai, in gergo librario, si chiamano mattoncini: volumi di formato contenuto, di buon spessore di pagine, di facile e rapida consultazione, rilegati all'olandese, come le guide turistiche o i libri di cucina. Come progetto editoriale si potrebbero avvicinare alle garzantine ma al rigore scientifico e enciclopedico di quelle, i testi di questi volumi, redatti da Laura Fischetto, sostituiscono un 'rigore poetico': raccontano la storia degli dei e degli eroi in ordine cronologico, partendo dal caos primigenio, e andando poi a dar conto ai ragazzi, cui, da non scordare, il progetto è indirizzato, delle storie mirabolanti dell'Olimpo, la cacciata dei Giganti, la nascita di Venere dalla schiuma del mare, Minerva che esce già armata di tutto punto dalla testa di Giove (stiamo usando, per comodità, i nomi correnti italiani ma nei due libri i personaggi hanno il loro nome greco originale).
Una lettura, come si capisce, riassuntiva ed evocativa, che si rivolge a chi di mitologia greca ricorda molto, e a chi non ne sa nulla. Ci narra storia lontane, ce ne fa sentire il profumo, ci invoglia a ripercorrere quei testi (da Esiodo o Omero) dove le storie meravigliose degli dei, degli uomini e degli eroi sono raccontate e tramandate all'eternità.

La mostra napoletana di Letizia Galli comprende 70 tavole delle oltre duecento che costituiscono il corpus dell'opera. Sarà inaugurata il 4 novembre e resterà visibile fino al 27 novembre.

Le Muse cantano e danzano e sono le amiche preziose degli artisti. Corrono subito ad ascoltare 
chi scrive poesie, chi sa recitare e chi ha appena composto una nuova canzone. 
Quando le Muse si divertono sorridono, e questo è il più bel regalo che un artista possa ricevere. 
Tutte le Muse ora sorridono a Apollo che suona e canta per loro.

venerdì 28 ottobre 2011

HH. Diritto alla legalità

Organizzato da Patrizia Tarquini della libreria Odysseus di Porto Potenza Picena si è svolto sabato 22 ottobre un incontro per esaminare e discutere una delle realtà calde di quel territorio, quella dell'Hotel House di Porto Recanati, che troppo spesso ha avuto gli onori e gli oneri della cronaca.
Ospiti della serata Carolina D'Angelo e Marco Paci, che hanno pubblicato recentemente con la nostra casa editrice una storia ambientata all'interno dell'Hotel, che ha già avuto una buona risonanza ed è stata presentata, con i disegni di Marco, alla recente Biennale dell'illustrazione di Bratislava.
Pubblichiamo alcuni passi del breve resoconto che Carolina d'Angelo ci ha mandato. 


"... alla presentazione hanno preso parte anche  membri di associazioni culturali che operano all’interno del “palazzone”. L’incontro è stato molto stimolante perché ha esaminato la situazione reale in cui versa l’Hotel House. Il Sindaco di Porto Recanati ha descritto i molti passi compiuti e quelli che si intendono compiere, affinché si realizzi e, sopratutto, si consolidi un’integrazione basata su uguaglianza di diritti e legalità. Mi preme insistere su questo punto poiché gli abitanti dell’Hotel House, supportati dall’appoggio del Sindaco, si stanno organizzando in comitati ‘di ale del palazzo’, eleggendo come responsabili i rappresentati delle varie etnie, che abitano i 17 piani dello stabile, per fronteggiare il problema dello spaccio e della delinquenza richiamando, dunque, l’attenzione e la collaborazione di forze dell’ordine e autorità locali. Un aspetto quello del diritto di legalità che, sebbene nella mia storia non appare così esplicito, lo ritengo presupposto fondamentale per un’integrazione senza fini di sfruttamento. Per concludere, se all’interno dell’Hotel House gli abitanti, il  Sindaco, le autorità locali, gli altri cittadini di Porto Recanati riusciranno a cacciar via una volta per tutte Gomorra (governata, come sappiamo, da Italiani ladri, corrotti e assassini) avranno finalmente vinto e conquistato a testa alta la propria fetta di mondo – tutti nessuno escluso (!) – ovunque essa sia situata."  

Carolina D'Angelo


 Video di Mauro Lasca

giovedì 27 ottobre 2011

Favole sante

«C’era una volta una fonte così infetta che chiunque ne bevesse cadeva subito morto. Donato, salito sull’asino, andò fin lì per sanare l’acqua, ma un terribile drago sbucò fuori della fonte e avvinghiò con la sua coda le zampe dell’asino e si drizzò contro di lui...»

È l'inizio della storia di San Donato e della sua battaglia contro il Drago; una delle tante leggende che si raccontano nel libro di Andrea Rauch e Alessandro Savorelli, Storie Sante, uscito già da qualche mese per le nostre edizioni.

Storie mirabolanti e devote, avventure picare, racconti che si intrecciano tra religiosità, superstizione, magia, favola. Un repertorio strettamente connesso con la storia stessa della nostra civiltà.


La parodia sublime
Alessandro Savorelli

Dai santi siamo circondati, anche chi è tiepido in fatto di religione: le vie, le piazze, le chiese, il calendario, le feste, le immagini, l’arte. Santi antichi, santi moderni o modernissimi: i primi occhieggiano in posa da affreschi e sculture, dei secondi raccontano le cronache giornalistiche e televisive. Santi da sempre, o santi subito.

Maestro della Cappella Manassei, Martirio di Santa Margherita, Prato, Duomo, 1410 ca.

Ma chi furono? che sappiamo di loro? quando sono vissuti? cosa facevano davvero? come è nato il loro culto? chi ha narrato la loro vita? sono tutti rubricabili sotto la generica categoria della ‘santità’ o si possono distinguere in gruppi e categorie diverse? Per rispondere a questi interrogativi è nata da molti secoli una disciplina storica, l’agiografia (da aghios, ‘santo’ in greco): inizialmente incerta, poi sempre più raffinata nelle sue indagini. Uno dei risultati della ricerca storica sui santi, nel quale convergono gran parte degli studiosi, è che – al di là del dato di carattere religioso e di fede – spesso dei santi più antichi non sappiamo quasi niente: si sono formati su una lenta tradizione popolare, orale o scritta, su leggende o culti locali, ma senza una base storica e documentaria precisa. Per molti santi più antichi, che sono anche quelli più famosi, tutto ciò che si sa è spesso la loro “Vita” raccontata da un monaco-scrittore. Ma queste “Vite” più che di eventi storici parlano della mentalità di chi le ha scritte, del suo senso della fede, dei suoi bisogni e delle sue paure: in altri termini, della sua “visione del mondo”.

Gherardo Starnina, Tentazione di Sant'Antonio, Firenze, Santa Croce, 1385

La più famosa raccolta di queste “Vite” - che comprendono, come si suol dire la narrazione di “vita, morte e miracoli” - si deve al vescovo Jacopo da Varazze, vissuto nel Duecento. Dei santi più antichi - anche se può apparire sorprendente - ben poco viene messo in rilievo quanto alla loro statura morale e alla loro sapienza teologica. Molto spesso appaiono solo come protagonisti di avventure - nel senso stretto della parola - autori di motti di spirito, di miracoli spettacolari. Se la devozione popolare e il riconoscimento ufficiale della Chiesa ne ha fatto degli uomini eccezionali, ciò che si legge di loro rasenta il genere della fiaba, e ne ha la stessa funzione: rassicurare, allietare, educare.
Per convincersene basta leggere questa antologia di “vite”, raccontate con stile semplice - da fiaba appunto - ma rispettoso della narrazione originale e paragonarle con le fiabe classiche che si leggono ai bambini o coi miti classici. Si scoprono strane affinità letterarie: che San Giorgio è Perseo, San Cristoforo è Ercole, San Giuliano è Edipo, San Galgano è Artù (e la sua ‘spada nella roccia’), Santa Tecla è Dafne, Sant’Alessio è una specie di bizzarro Ulisse.

Paolo Uccello, San Giorgio e il Drago, Londra, National Gallery, 1456

Sano di Pietro, San Cristoforo, Siena, Pinacoteca Nazionale, 1450 ca.

Se il mito classico fornisce materiale alle vite dei santi, le situazioni e gli oggetti sono spesso proprio quelli delle fiabe: talismani, castelli e boschi fatati, draghi, orchi (camuffati da pagani), maghi, errori giudiziari, principesse malate o in pericolo, viaggi per mare, tesori nascosti.
La storia di San Tommaso inizia come una fiaba: «Si imbarcarono e giunsero in una città, nella quale il re stava celebrando le nozze della figlia...». Santa Marta, figlia di un re, giunge a Marsiglia, dove «c’era in un bosco un drago, mezzo animale, mezzo pesce, un po’ più grande di un bue, più lungo d’un cavallo, con denti affilati come spade ... nascosto nel fiume uccideva tutti coloro che lo attraversavano e faceva affondare le navi». Santa Cristina, come infinite principesse, è chiusa dal padre, desideroso di un buon partito, «in una torre con dodici ancelle»: «era bellissima e molti la chiedevano in moglie». San Patrizio, alla fine del ponte sospeso sull’abisso infernale trova «una meravigliosa città, scintillante d’oro e di pietre preziose». La vicenda di Sant’Eustachio comincia nel bosco: «Un giorno mentre era a caccia, incontrò un branco di cervi, fra i quali uno era particolarmente grande e bello»: un cervo parlante.

Bernardino Fungai, Martirio di San Clemente, City Art Gallery, York, 1500 ca.

Paragonare le “Vite” dei santi alle fiabe non è un’operazione illegittima: Ingmar Bergman riscrisse in un grande film (La fontana della vergine) una leggenda medievale svedese, sorta attorno al martirio di una santa locale, quasi come se si trattasse di Cappuccetto Rosso. Le “Vite” dei santi sono perciò in primo luogo “pezzi di medioevo fantastico”.
Non deve ingannare l’apparente contrasto tra l’invariabile happy end della fiaba e l’apparente sconfitta del martire, che conclude le sue tribolazioni (tra fantascienza e sadismo) con la morte: la morte del santo è la «parodia sublime» del trionfo dell’eroe delle fiabe, cioè la conquista del premio dell’immortalità e della gloria in un altro mondo: un altro modo di dire «vissero felici e contenti».
Come quella del bambino, la paura del fedele per il male e le sofferenze dell’aldiqua, si scioglie davanti alla promessa di un sogno e di una vita eternamente felice.


San Donato. Sputi al Drago

Fuor di città c’era una fonte talmente infetta che chiunque si provasse a bere un sorso d’acqua era sicuro di cader morto. Eppure era una sorgente che, fino a un punto, aveva dato acqua che tutti potevano bere e trovavano buonissima. Il vescovo Donato fu pregato di dire una preghiera per sanare l’acqua avvelenata. Il sant’uomo salì in groppa al suo asinello e andò alla fonte per benedirla.

Sano di Pietro, San Donato e il Drago, Abbadia Isola, Siena, 1471

Aveva appena cominciato il suo devoto offizio che dall’acqua torbida venne su un drago. Con la lunga coda avvinghiò le zampe dell’asino facendo cadere cavaliere e cavalcatura. La bestiaccia strillava e stringeva, l’asino ragliava, più che impaurito, terrorizzato.
Donato si rialzò alla svelta, si dette una spolverata alla veste e si avvicinò al drago e all’asino avvinghiati. La bestiaccia distolse per un attimo l’attenzione dall’asino, ormai mezzo morto di paura, e si voltò a fare gli occhiacci al santo. Donato gli sputò nella bocca aperta e il drago cadde morto.

Il santo vescovo pregò ancora finché la fonte non fu del tutto risanata e la polla non tornò limpida. Bevve una gran sorsata d’acqua, perché non c’è niente che faccia venir sete come una lotta con il drago, montò in groppa all’asino e tornò lemme lemme in città.


San Giacomo. Miracoli sulla via di Santiago

Una volta, verso l’anno mille, un uomo e suo figlio se ne vennero a Santiago dalla Germania. Si fermarono a dormire a Tolosa, in una locanda tenuta da un oste furfante. Il malvagio era solito nascondere nelle borse dei viaggiatori, che a naso gli sembravano i più sprovveduti, un qualche oggetto prezioso, poi, al mattino, accusava l’avventore di furto e lo portava in giudizio. Nei bagagli del malcapitato si trovava ovviamente l’oggetto rubato. Il tapino veniva condannato, impiccato, i suoi beni confiscati e assegnati al briccone per rifondere il danno. In questo modo quell’oste della malora ingrassava.

Primo Maestro di Lecceto, Miracolo dell'impiccato, Cuna, Siena, 1320 ca.

Fece così anche questa volta; le guardie trovarono nella sacca dei pellegrini una coppa d’argento, il figlio fu giudicato colpevole e impiccato per la gola. Il padre fu privato del suo e cacciato da Tolosa. Dovette continuare da solo il suo mesto pellegrinaggio per Santiago.
Ventisei giorni dopo, sulla via del ritorno, l’uomo volle ripassare da Tolosa per dare un’ultima occhiata al figlio, che era rimasto appeso per ammaestrare i cittadini e satollare i corvi.
Si avvicinò piangendo alla forca ma, muovendo appena la bocca per la corda che gli stringeva il collo, l’impiccato gli disse:
– Babbo caro non piangere! Non me la sono passata male fino ad ora. Il Santo Giacomo mi ha portato ogni giorno da mangiare e bere e mi ha tenuto su per i piedi perché non mi strozzassi.
Il padre corse in città a dare la notizia. Scesero dalla forca il giovane e impiccarono al suo posto l’oste. Non crediamo che San Giacomo abbia sostenuto per i piedi anche lui.


San Benedetto. Il monaco distratto
 
Benedetto da Norcia si ritirò in un eremo e la sua fama di santità si sparse ovunque. Presto molti fedeli si radunarono intorno a lui e Benedetto fece costruire dodici monasteri che accogliessero chi voleva seguire liberamente i suoi insegnamenti.

In uno dei dodici monasteri ci fu una volta un monacello che non riusciva a restare a lungo in preghiera. Tutti genuflessi e a capo chino e lui, dopo un attimo, rialzava la testa e cominciava a guardare uno stormo di uccellini che danzava nell’aria fuori dalla finestra. Oppure si incantava a contare i fili di una tela di ragno all’angolo della parete. O ancora cominciava a grattarsi con accanimento la punta del naso e a cercare con la lingua qualcosa rimasta all’interno della bocca tra le gote e i denti. Per quel fraticello tutto era buono per distrarsi dalla preghiera e il suo comportamento costituiva, va da sé, un pessimo esempio per gli altri monaci.

Sano di Pietro, San Benedetto e il monaco distratto, Abbadia Isola, Siena, 1471

Venne Benedetto e vide un diavoletto piccolo e nero, dal viso dispettoso, che tirava per l’orlo della tonaca il fraticello.
Il santo si mise in devota meditazione, pregò a lungo e si batté il petto in segno di mortificazione.
Quando si alzò, si avvicinò al monaco distratto (che in quel momento era perduto nella contemplazione del gatto del monastero che faceva non so cosa) e lo riempì di bastonate.
Il frate non disse una sola parola: si inginocchiò e prese a biascicare le sue orazioni con una lena che mai gli s’era vista.
Il diavoletto, nemmeno fossero toccate a lui le bastonate, scappò via dall’oratorio e non si fece mai più vedere.

Andrea Rauch, Alessandro Savorelli, Storie Sante, Prìncipi & Princípi, 2010, euro 28,00.
Con immagini della grande arte italiana del trecento e quattrocento.

mercoledì 26 ottobre 2011

Quella volta che gli Orsi invasero la Sicilia...

"Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie.” (Dino Buzzati)


Dino Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia

Forse davvero, per Dino Buzzati, scrivere o dipingere sono state la stessa cosa: un modo di raccontar storie, per ‘disegnare’ o ‘descrivere’ le stesse atmosfere rarefatte, metafisiche, fiabesche. È una fiaba, infatti (parliamo di scrittura) I segreti del bosco vecchio, ed è una fiaba, in fondo, anche Il deserto dei Tartari. Sono fiabe tutti i suoi racconti, fiabe anche ‘visive’, intendiamo, sopratutto perché noi oggi, a posteriori, ricolleghiamo quelle pagine 'scritte' ai disegni che Buzzati ci ha lasciato e che ci fanno vedere il 'silenzio' solitario e quasi ieratico dei suoi paesaggi, le linee metafisicamente sghembe delle sue piazze e delle sue vie, le guglie e i pinnacoli, sempre a mezza via tra il gotico fiammeggiante del Duomo di Milano e le cime aguzze delle Dolomiti del bellunese.
Scrittura e visualità intrecciate e indissolubili. Buzzati è stato dunque artista e fabulatore in grado di dipanare tra disegno e parola le sue storie ancestrali e le sue visioni rassegnate, o ironiche, o sconsolate.

Dino Buzzati, I miracoli di Val Morel
Il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Il mondo invece crede che sia viceversa e le mie pitture non le « può » prendere sul serio. (...) Intendiamoci bene. Non intendo fare la vittima. Non voglio recitare la sgradevole parte di incompreso. So stare al gioco. E riconosco pure che il mondo cane alla fine non commette ingiustizie. E so benissimo che il mio gigantesco talento di pittore avrà un giorno il suo riconoscimento. Al Louvre, alla National Gallery, al Museum of Modern Art, al Modern Kunst Institut, a Valle Giulia, state pure tranquilli, c'è già un posto per me. Ma, per ottenere questo, bisogna che io prima defunga. Mi rendo conto della situazione. E mi rassegno.

L'apologo degli orsi

Storia, disegno, favola. Queste tre parole le troviamo tutte in un libro, come recitava la bandella mondadoriana, “più citato che letto”. La famosa invasione degli orsi in Sicilia, è un apologo dettato nei tempi cupi della Guerra (uscì a stampa nel 1945), sulla conquista del potere, ma sopratutto sulla rinuncia al potere, e sulla ricerca di una felicità d'antan che può  essere ritrovata, quando l’abbiamo perduta, solo nel ritorno a un vagheggiato, e certo utopico, stato di natura.

Nei tempi dei tempi, quando la Sicilia era una regione dalle montagne nevose e impervie, gli orsi scendono a valle per cercare Tonio, l’orsacchiotto figlio di Re Leonzio, rapito dai cacciatori. Il principe orsacchiotto verrà ritrovato dopo tante avventure, ma la vita nelle città corromperà la naturalità degli animali che prenderanno i vizi, le piccinerie e le debolezze degli uomini.

Prima di morire re Leonzio rivolgerà ai suoi orsi l’ultimo disperato appello: “Tornate alle montagne… lasciate questa città dove avete trovato ricchezza, ma non la pace dell’animo. Toglietevi di dosso quei ridicoli vestiti. Buttate via l’oro. Gettate i cannoni, i fucili e tutte le altre diavolerie che gli uomini vi hanno insegnato. Tornate quelli che eravate prima. Come si viveva felici in quelle erme spelonche aperte ai venti, altro che in questi malinconici palazzi pieni di scarafaggi e di polvere! I funghi delle foreste e il miele selvatico vi parranno ancora il cibo più squisito. Oh bevete ancora l’acqua pura delle sorgenti, non il vino che vi rovina la salute. Sarà triste staccarvi da tante belle cose, lo so, ma dopo vi sentirete più contenti, e diventerete anche più belli. Siamo ingrassati, amici miei, ecco la verità, abbiamo messo su pancia”.


Lo zoccolo duro della Famosa invasione… anticipa di qualche anno La fattoria degli animali, ma quello che Orwell ci racconterà in termini di disillusione politica, Buzzati lo riconduce al mondo della fiaba, parlata, scritta, disegnata. Nelle sue pagine l’apologo è diventato pittura popolare, grande affresco di una civiltà lontana e ormai irraggiungibile, dove i fantasmi e le storie della tradizione, dal Gatto Mammone, al Serpenton dei Mari, dal Veglio della Montagna ai cinghiali volanti molfettani, trovano il loro spazio e sistemazione quasi naturali. E non sarà certo un caso se le stesse figure  popoleranno sempre la fantasia buzzatiana, rincorrendosi e fermandosi come veri e propri topoi, dalle prime prove e nel corso degli anni, fino alla fantastica epopea dei Miracoli di Val Morel, quando tutti loro, dal Gatto al Serpentone agli altri, racconti di paure infantili e di metafisica presenza, torneranno sulle loro montagne, non quelle siciliane degli orsi, ma quelle bellunesi dell’infanzia dell’artista che, in fondo, non avevano mai abbandonato.



Gli orsi, spinti dal freddo e dalla fame, scendono verso la pianura 
e impegnano battaglia con l'agguerrito esercito del Granduca 
accorso per respingerli. Senonché l'intrepidezza dell'orso Babbone 
volge in fuga i soldati granducali.


I  cinghiali da guerra del sire di Molfetta attaccano all'improvviso gli orsi 
ma l'astrologo De Ambrosiis li trasforma con un incantesimo 
in palloni aerostatici, cullati dolcemente dalle brezze. 
Donde la nota leggenda dei cinghiali volanti molfettani.


In cupa gola dei monti Pelori gli orsi sono assaliti dal Gatto Mammone 
sitibondo di sangue. E quale fugge, quale spara in un'inane difesa, 
quale si cela, quale si gitta nel baratro non volendo 
fare di sé satollo il leggendario mostro.


Conquistata dunque la Sicilia, sfilano nella grande piazza le prodi schiere 
degli orsi. Può assistervi anche l'orsatto Tonio, principino, salvato 
per l'intervento del mago ma ancora un po' debole per via 
del sangue versato: e perciò in lettiga.


Re Leonzio, essendo stata rubata al prof. De Ambrosiis la bacchetta magica, 
arringa la cittadinanza, esortando il colpevole a restituire il prezioso 
oggetto e minacciando in caso contrario severe pene. È arrabbiatissimo.


 A bordo di un navicello Re Leonzio si avventura contro il terribile 
Serpenton dei mari che minaccia la città. E lo uccide con un colpo di fiocina. 
Ma la perfidia di Salnitro - vedrete! - getta il popolo giubilante 
nel lutto e nella tragedia.

martedì 25 ottobre 2011

Il meraviglioso mondo di Oz


Quando noi oggi leggiamo o sfogliamo il Mago di Oz, generalmente abbiamo negli occhi Judy Garland che canta Over the Rainbow, e poco o nulla sappiamo della simbologia, coperta o scoperta, della storia, delle chiavi di lettura e interpretazione con cui possiamo aprire le porte di quel meraviglioso paese. Certo, possiamo anche non saper niente di tutto questo e leggerci la storia come una gran favola, una girandola di colori e di meraviglie visive, una narrazione incalzante, in cui ogni momento succede qualcosa, dove ogni pagina ci riserva sorprese, avventure e colpi di scena,


Simone Frasca (il suo Mago di Oz, edizioni Prìncipi & Princípi, va in libreria il 27 ottobre) crediamo abbia guardato al testo del libro con gli occhi di un bambino e non sappiamo quanto sia stato sedotto dalle ipotesi di lettura che abbiamo appena citato.
I disegni di Simone ci appaiono freschi e immediati, coloratissimi come il paese del mago, deliziosamente naïf  e certo riferiti ad un modo di fare illustrazione oggi poco praticato se non desueto; vanno indietro nel tempo e attingono ad un patrimonio grafico forse degli anni cinquanta. Poi nei disegni di Simone non ci sono soltanto riferimenti alla storia dell’illustrazione o pseudo ingenuità ‘bambinesi’. Simone Frasca è artista troppo intelligente e preparato, in tecnica e ispirazione, per limitarsi a questo; il suo Mago di Oz si veste quindi di forme originali e ghiotte, essenziali e complesse, ingenue e sapienti al tempo stesso.



Illustrazioni di Simone Frasca, 2011

Detto questo, e accennato quindi alla complessità delle interpretazioni possibili del libro e dei disegni che lo accompagnano, non sarà forse inutile riandare alla storia di quelle interpretazioni. Per accorgersi che anche la più fantastica e irreale delle fiabe può nascondere significati, simbologie, metafore complesse.

Copertina di W. W. Denslow, 1900
D’altra parte il libro di Frank Baum si prestò subito, dalla sua prima uscita nel 1900, alle interpretazioni le più varie. Si passò dalla più sviscerata adesione (Oz fu subito amatissimo dai bambini americani che gli decretarono un successo immediato e completo) alla più stolida avversione. Sottovalutato dalla critica e osteggiato ‘politicamente’ il Mago di Oz visse sempre una vita duplice. In certi periodi per una pretesa lettura ‘socialisteggiante’ fu addirittura bandito dalle biblioteche pubbliche americane.
Negli anni Cinquanta, quelli della caccia alle streghe del senatore McCarthy, in cui anche la leggenda di Robin Hood può essere sospettata di marxismo, qualcuno afferma che le opere di Baum “non hanno alcun valore”, incoraggiano al “negativismo” e fuorviano le menti con un atteggiamento vile verso la vita. (Renato Gorgoni, 1978)


Illustrazione di W. W. Denslow, 1900

Il periodo in cui Frank Baum svolge la sua vicenda, e il luogo in cui la vicenda stessa inizia, una prateria del Kansas, si prestano certamente ad interpretazioni, in qualche modo, se non ‘socialiste’, sociali. La crisi finanziaria e la deflazione che colpirono la società americana alla fine del XIX secolo paiono riflettersi in modo esemplare negli eventi della fattoria in cui cresce la piccola Dorothy e il ciclone che, all’inizio, colpisce quel mondo in difficoltà, sembra voler alludere alla necessità di un cambiamento radicale. È questa una lettura ‘politico-economicistica’, e relativamente recente, del libro, dovuta all’analisi di uno studioso del settore, Hugh Rockoff (1990), che assegna a tutti i fatti e personaggi della storia un ruolo preciso nella politica del momento: così la Città degli Smeraldi dovrebbe rappresentare Washington, la capitale della politica americana, e il palazzo del Mago la Casa Bianca; le Scimmie alate, burlone e ridanciate ma anche asservite al potere, sarebbero gli schiavi afroamericani e addirittura nel Mago di Oz, gran ciarlatano e imbroglione, Rockoff riconosce una caricatura di Marcus Alonzo Hanna, al tempo presidente del Partito Repubblicano statunitense. E così via.

Copertina di John R. Neill, 1913
Più interessante, però, è seguire le piste 'colorate' del libro. Oz è un arcobaleno cromatico continuo; ogni paese che Dorothy attraversa, ogni personaggio che incontra, è caratterizzato da un colore proprio e significante. I Munchkins sono vestiti di azzurro e il loro paese è anch’esso azzurro, la Città degli Smeraldi è verde e tutti sono vestiti di verde, le fate sono bianche ecc.
Il carattere di quelle popolazioni e i loro modi di essere si nutrono del loro colore di riferimento. E se l’azzurro è oggi, come ci ha insegnato Michel Pastoureau, un colore pacato, conformista, che non spiace a nessuno, ecco che il paese dei Munchkins, liberato dalla Strega dell'Est, è tal quale, bello, luminoso, un tantinello noioso, senza conflitti, ed è aiutato dalla buona Strega del Nord, che, vestita di bianco, è immagine di saggezza e di tranquillità. Un po’ noiosa anch'essa, magari.


Copertina di John R. Neill, 1913
Il paese di Oz, la Città degli Smeraldi, è verde e, poiché sin dai tempi antichi il verde è stato una tinta difficile da produrre e rendere stabile, ecco che, per traslato, quel colore è sempre stato associato a qualcosa che cambia, si trasforma, tende a ingannarci (e forse non per caso il paese di Oz è solo un’illusione prodotta dagli occhiali dalle lenti verdi che tutti indossano e che fanno virare ogni colore). Il giallo del paese dei Winkies racconta la viltà, quasi la follia e l’infamità  (caratteristiche che hanno accompagnato, nei secoli, il colore giallo)  di quel popolo, finché è soggiogato dalla crudele strega dell’Ovest.
Per finire con il luminoso mondo di Glinda, la Strega buona del Sud, anch’essa bianca (che regna però su un paese rosso, caldo quindi, passionale, positivo, simbolicamente in marcia ‘verso l’avvenire’), che offre a Dorothy la soluzione dei suoi problemi.

Che, in fondo, chi pensava che Frank Baum fosse un poco ‘socialista’ e guardasse ad una società diversa, non avesse ragione?