mercoledì 31 agosto 2011

Maestri 8. Toti Scialoja


Toti Scialoja, pittore e scenografo, nasce a Roma nel 1914. La sua maturazione artistica avviene negli anni Cinquanta con l’adesione all’astrattismo informale. Docente e direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Negli anni Settanta pubblica alcuni libri illustrati di poesie per bambini (Amato topino caro, Una vespa! che spavento, Ghiro, ghiro tonto…) che, nel 1991, saranno esposti a Bologna e Roma nella mostra Animalìe. Muore nel 1998. Pubblichiamo l’intervista a Scialoja riportata nel catalogo della mostra Animalìe.

Toti Scialoja

Domanda. Tra il 1970 e il 1980 Toti Scialoja pubblica quattro libri di poesie illustrate per bambini. Come è nata questa esperienza?

Toti Scialoia. Naturalmente devo risalire alle origini. Sono sempre stato un accanito lettore di libri. Fin dall’età di sei anni. Erano il mio scopo e la mia gioia. Mi interessava tutto: la prosa che leggevo e i disegni che la illustravano. Ricordo una grande passione per i racconti fantastici di Yambo, per Salgari e per Verne.
Le illustrazioni mi facevano sognare quasi quanto il testo. Ho amato alla follia i disegni di Antonio Rubino, quelli di Attilio Mussino, quelli di Bruno Angoletta, per non parlare di Doré e Grandville. Posso dire di essermi formato sui grandi illustratori per l’infanzia.
La mia fantasia si alimentava di quei disegni, quasi fossero apparizioni. Mi piaceva tutto.
Quando, nel 1961, ho cominciato a scrivere poesie per il mio nipotino che stava a Roma (io in quegli anni abitavo a Parigi) non potevo concepire che i versi non fossero accompagnati da un disegno. E naturalmente mi ricordavo bene che per un bambino il disegno deve essere molto leggibile, chiaro, senza inutili virtuosismi. Infatti i disegni che andavo facendo erano semplici, immediati, senza sfoggi di sapienza stilistica. Sono disegni ingenui. Un gatto è un gatto, con tutte le sue caratteristiche.



D. Una vocazione che si forma e si consolida, pare di capire, tenendo ben fermo come riferimento quella grande palestra dell’illustrazione che fu il “Corriere dei Piccoli”.

T. S. Certo. Attilio Mussino disegnava Bilbolbul, il negretto sognatore che prendeva sul serio i modi di dire.
Antonio Rubino era autore di tanti indimenticabili personaggi, da Quadratino a Pierino, dal caprone Barbabucco al Collegio la Delizia. Angoletta poi è ancor oggi soprattutto famoso per Marmittone.

D. Non ha però parlato di Sergio Tofano.

T. S. Perché a me interessava meno. Per Tofano non avevo lo stesso amore che per gli altri di cui stavamo parlando. Era un grande disegnatore ma non mi accendeva la fantasia; i suoi disegni erano forse un po’ troppo eleganti e manierati.

D. Più che al Tofano disegnatore pensavo però al Tofano scrittore e uomo di teatro. Un certo modo di fare poesia, il gusto per l’allitterazione, per le assonanze, per certi artifici di metrica, per la parola e il suono, li ritroviamo poi molto nelle poesie di Scialoja.

T. S. Perché è un tratto comune a ogni letteratura che si rivolge all’infanzia. I miei versi, come d’altra parte quasi tutta la poesia per bambini, hanno origine dalla filastrocca e dalle conte, che si sono sempre avvalse di allitterazioni e giochi di parole. Chi scrive per bambini ben difficilmente può sconfinare da questo terreno.
Naturalmente poi non basta la rima per fare una buona filastrocca e troppi di coloro che si occupano di bambini pensano di avere a che fare con dei piccoli idioti. Il bambino è invece acutissimo, malizioso, angosciato: i suoi meccanismi psichici sono complessi e tormentati. Purtroppo molti adulti si dimenticano della propria infanzia e si rivolgono ai bambini come a dei poveri sciocchi. E invece si tratta di entrare in comunicazione con il mondo dell’infanzia, ognuno con la propria personalità e il proprio linguaggio, da adulto a bambino, senza inutili birignao e bamboleggiamenti.
Se il contatto è onesto funziona ed è l’unico possibile.



D. Parlavamo prima di ascendenze. Si dovranno ricordare anche i limericks inglesi.

T. S. Certo. La mia passione per la lettura, e poi per la scrittura, deriva in gran parte dall’Enciclopedia dei ragazzi. Su quelle pagine, quando avevo non più di sei anni, cominciai a leggere i nonsense inglesi di Edward Lear. Divenni un fanatico; amavo alla follia sia i testi che le illustrazioni. Al contrario, le poesie dolciastre di Angiolo Silvio Novaro e degli altri che allora si dovevano leggere mi davano un senso di peso, di malessere.
Era un mondo di nonni malati e di uccellini che hanno freddo: un mondo francamente stucchevole. Ne sentivo ripugnanza, non mi ci riconoscevo. C’era qualcosa di falso, come un cattivo odore. Con i nonsense mi sentivo a casa mia, ero felice. Erano i miei paesaggi.

D. È un atteggiamento culturale molto preciso. Il nonsense nasce e prospera in un habitat particolare. Carlo Izzo, che ha curato e tradotto la raccolta dei limericks di Lear per Einaudi riporta un esempio: se in treno davanti a me, che sono italiano, uno sconosciuto si versa in testa e si spalma un barattolo di miele io penso «È matto!» e cerco di cambiare posto. Se la stessa cosa succede a un inglese questi probabilmente penserà: «Forse è un nuovo metodo per prevenire la caduta dei capelli. Meriterebbe provare».

T. S. È un atteggiamento di fronte alla realtà che nasce da un’abitudine culturale diversa. È quella che si può definire la presa di coscienza del mondo attraverso la propria esperienza individuale. Noi siamo cattolici mediterranei e meno pronti a rompere le convenzioni, che accettiamo in genere come patti magici. L’anglosassone vuole assumere ogni esperienza nella propria coscienza e risolverla come fatto personale.

D. Riassumendo, dunque, Toti Scialoja si forma a mezza strada tra il “Corriere dei Piccoli” e Edward Lear.

T. S. C’è anche un’altra componente, questa (se ci si passa il termine) più decisamente scialojana. Nella mia famiglia è sempre stato vivo il gusto per l’ironia e lo sfottò.
Ci prendevamo spesso in giro l’uno con l’altro, ci scrivevamo addosso versetti comici; a nove anni scrivevo poesie satiriche su quello che succedeva intorno a me. Questa salacità che trovava forma più pungente in versi e rime era una caratteristica propria della famiglia. Anche questo, credo, va messo in conto.

D. Poi però Scialoja cresce, diventa adulto, e comincia a scrivere poesie per i suoi nipotini.

Amato Topino caro, Bompiani, 1971
T. S. Quei primi versi nacquero da una spontaneità incontrollabile. La molla forse fu fatta scattare dalla lontananza. In quegli anni, i primi anni Sessanta, mi trovavo ad abitare a Parigi, parlavo francese, pensavo in francese, sognavo in francese. Avevo finito quasi col perdere il gusto della parola italiana che è tutta corposa e concreta. Questo rimpianto per la lingua, che mi mancava, e la gioia di trovare un mezzo adatto per comunicare con il mio nipotino, che stava a Roma, mi spinsero a scrivere delle poesie italiane dove la parola ha un suo peso e peculiari valenze interne.
La non puerilità di quelle poesie deriva anche dal fatto che indirizzavo sì le poesie al mio nipotino ma segretamente erano dirette a mia moglie che doveva leggerle al bambino. Certe furbizie del verso, certi tratti più sottili erano per Gabriella Drudi, che stava a Roma con il piccolo James.

D. Rivolte segretamente a un adulto certo, ma il bambino cosa diceva?

T. S. Si divertiva come un matto. Se le faceva leggere continuamente. Circolavano comunque per tutta la famiglia e tutti sembravano apprezzarle molto.

D. Dalla famiglia, inevitabilmente, il cerchio si allarga.

T. S. Qualche anno dopo, nel 1969, in un periodo cupo e difficile della mia vita mi divertii a costruire un vero libro, in copia unica, per le mie altre nipotine, Barbara e Alice.
Era un librettino rilegato in marocchino rosso che circolava tra gli amici, correva di mano in mano. Fino a capitare in quelle di Ugo Mulas, povero amico, grande fotografo, che si appassionò davvero. «Queste poesie hanno una struggenza...», diceva struggenza non struggimento, una parola strana. Mulas cercò di far pubblicare le mie poesie a Milano, ma senza successo, da Rosellina Archinto. Le pubblicò poi Emanuela Bompiani nella sua collana di poesie per l’infanzia.
Il titolo era Amato topino caro e uscì nel 1971. Emanuela Bompiani lavorò con me con grande amore e passione. Mi permise di impaginare le poesie in spazi che si compongono sulla pagina in modo sempre diverso. Fu un bel lavoro.

Amato Topino caro, Bompiani, 1971

D. Poi c’è l’incontro con Calvino.

T. S. La lettera di Calvino arrivò dopo un anno. Diceva: «Caro Scialoja, il libro che lei mi ha mandato è stato trovato da mia figlia che l’ha voluto portare con sé in vacanza. Per tutta l’estate l’abbiamo sentiva recitare “L’ippopotamo disse: Mo”e “Pipistrello, ti par bello”. Le sue poesie piacciono molto anche a me. È il primo vero esempio italiano di un divertimento poetico congeniale alla tradizione inglese del nonsense e del limerick. Se ne ha delle altre sarei felice di pubblicarle.»
Io il nuovo libro in realtà l’avevo già scritto. Erano oltre cento poesie che avevo nel cassetto. Disegnai le illustrazioni e le mandai: uscì qualche tempo dopo col titolo: Una vespa! Che spavento.
Poi divenni anche amico della figlia di Calvino, Giovanna. Era molto carina, dalle buone maniere, quasi una bambolina, molto simpatica.

Una vespa! Che spavento, Einaudi, 1975

D. Dal 1979 Scialoja non scrive più per i bambini?

T. S. L’esperienza per i bambini è racchiusa tra gli anni Sessanta e Settanta. Nel ‘76 accadde una cosa per me molto importante. Il poeta Antonio Porta, in un convegno letterario che si svolgeva a Orvieto, citò il mio nome definendomi «un vero poeta».
«La poesia è sonorità – diceva Porta – e Scialoja crea suoni straordinari».
Questo mi incoraggiò e mi diede forza. Nanni Balestrini, subito dopo, mi chiese un nuovo testo, delle poesie «un po’ meno infantili». E io ce l’avevo già un testo nuovo, delle poesie più salaci e cattive: La stanza la stizza l’astuzia.
Questo è già un libro di nonsense per adulti. Da allora (se si esclude la parentesi di Ghiro ghiro tonto, del 1979, che è ancora un libro per bambini) mi sono accorto del nascere di una vena inattesa per cui la poesia non era più rivolta a qualcuno in generale, o ai bambini in particolare, ma principalmente a me stesso. Era un mio modo di espressione senza più predeterminazione.

D. E ora?

T. S. Quando s’invecchia abbiamo sempre più bisogno di raccontare. Continuo a scrivere poesie anche se via via mi sono accorto che la metrica sempre usata non è più sufficiente. Non mi bastano più il settenario, né l’ottonario; l’endecasillabo non è abbastanza prolungato. Ho bisogno di altri ritmi, più distesi. Non voglio però uscire dalla metrica. Io non amo i versi liberi. Poesia per me è un verso convenzionalmente racchiuso in una forma.

D. Come mai Scialoja non ha mai avuto la tentazione del racconto per l’infanzia? Eppure esiste una tradizione di autori che scrivono e illustrano i propri libri.

T. S. Io non mi considero uno specialista dell’infanzia. Per pura bizzarria mi è nata questa vena di poesia nonsensica e per tanti anni l’ho usata come forma di esorcismo verso la mia condizione d’isolato. A Parigi vivevo in volontario esilio, si può dire, dimenticato da tutti, ignorato da tutti. Era un’esistenza amara. Questi versi mi servivano come rimedio alla solitudine, come consolazione cantata a me medesimo. Non ho comunque mai pensato, come dovrebbe fare uno specialista, all’infanzia come a un territorio da esplorare e attraversare.
Quando scrivevo poesie per bambini ero io stesso un bambino che diceva poesie, che si divertiva e giocava. Io non conosco tutte le infanzie, conosco solo la mia infanzia. Quello che ricordo di allora è uno stato d’animo dentro il quale vivo ancora. L’infanzia è una cosa molto seria. Il mio ricordo è un periodo di solitudine assoluta, di sospetto, di mito continuo. Il tempo andava all’infinito, lo spazio andava all’infinito e la morte non esisteva. Questa infinità, questa perpetuità mi sgomentava e affascinava allo stesso tempo. Sapevo di essere un bambino, assumevo il ruolo con amarezza, o con dolcezza se era il caso, ma ero pur sempre io, non ero né bambino né altro.
La mia infanzia di allora è immersa in una sensazione di unicità. La mia infanzia sono io.

Testo tratto da: Toti Scialoja, Animalìe, Graphis, 1991.

Saliamo tutti sul Treno per Bogotà


Amici illustratori (Libero Gozzini, tra i primi) ci chiedono, a seguito del nostro post di ieri sera dedicato all'alluvione della libreria Il treno di Bogotà e alla susseguente domanda d'aiuto di Raffaele e Vera Salton, come sia possibile intervenire, donando libri o altro.
Il suggerimento che possiamo dare è quello di telefonare alla libreria e mettersi direttamente in contatto con Vera o Raffaele.

Il numero da chiamare è  0438 072347, a Vittorio Veneto. Grazie a tutti.

martedì 30 agosto 2011

"Il Treno" sott'acqua


Poche settimane fa abbiamo visitato, e ne abbiamo parlato su questo blog, la libreria di Vittorio Veneto Il Treno di Bogotà. Ci aveva fatto una grande impressione per passione e competenza. Avevamo fatto, con loro, molte considerazioni sulle difficoltà del settore, "sull'acqua alla gola" che, in tanti casi, sembra trascinarci giù tutti. Ma "sull'acqua alla gola" restava naturalmente un luogo figurato e invece, sabato scorso, Il Treno di Bogotà si è trovato davvero, e in senso letterale "l'acqua alla gola". Vera e Raffaele Salton ci hanno mandato una lettera, dignitosamente disperata,  che vogliamo partecipare con tutti coloro che hanno a cuore i fatti della convivenza culturale e civile di questo paese. Sarebbe auspicabile che tutti, editori in primis, ma poi anche le istituzioni pubbliche e i cittadini, clienti e non della libreria, potessero dare un segno, magari simbolico. Un segno di speranza.



Cari editori,

sabato pomeriggio nella pausa pranzo si è scatenata una grandinata a cui è seguita un'alluvione nel quartiere della nostra libreria e nelle zone vicine, con frane, smottamenti e allagamenti. L'acqua è salita di quasi 40 cm, i tombini sono stati ostruiti dalla grandine e i portici dove ci troviamo sono divenuti un fiume in piena; in mezz'ora la libreria si è allagata rovinando libri per quasi diecimila euro, facendo crollare gli espositori, nove, in cartone la cui base ha ceduto riversando il contenuto sul pavimento allagato e rovinando alcuni mobili salvati per buona parte dai molti tappeti che abbiamo e che hanno fatto da spugna per quanto possibile.
Fra i libri forse siamo riusciti a salvarne un centinaio le cui pagine per lo meno non sono incollate e che proveremo a vendere a metà prezzo, per la gran parte invece è tutto inservibile. Buona parte dei libri da zero a tre anni, degli illustrati, dei libri fotografici e alcune collane sono in questo stato.
La nostra assicurazione non ci coprirà  perché questo rientra in una delle poche situazioni per cui non risponde, nemmeno se avessimo sottoscritto una polizza "all risk" saremmo coperti, lo stesso vale per il comune.

Tutto questo accade in un momento già per noi molto duro. Sappiamo che lo è per molti, ma ci troviamo a chiedere un aiuto, a chi di voi potrà, e nella misura in cui potrete. È solo un tentativo e non vogliamo che nessuno si senta in obbligo nei nostri confronti.

Per il resto avendo compiuto Il treno di Bogotà dieci anni quest'anno, il nove ottobre p.v. faremo una festa, semplice ma allegra, se vi troverete a passare da queste parti vi aspettiamo per brindare con noi.

A presto, un cordiale saluto
Vera e Raffaele Salton

lunedì 29 agosto 2011

Maestri 7. Seymour Chwast

Seymour Chwast, nato a New York nel 1931, e cresciuto nel Bronx, tra Harlem e Queens, è tra i fondatori, nel 1954, dei Push Pin Studios, che raccoglieranno tutte le forze emergenti e innovative della grafica americana del secondo dopoguerra. 
Dopo la separazione dal nucleo originario, Chwast continuerà a dirigere, fino ad oggi, i Push Pin Studios, con risultati straordinari per intelligenza e creatività.




Seymour Chwast è una delle figure più importanti del design americano contemporaneo. Da quando, nel 1954, con Ed Sorel e Milton Glaser, iniziò l’avventura dei Push Pin Studios, determinanti per cambiare il modo di intendere la grafica nella seconda metà del ventesimo secolo, si occupa di illustrazione, di corporate identity e di brand image. “Push Pin Graphic”, l’house organ dello studio (1955-1981), che Chwast ha diretto fin dal primo numero, è ancor oggi considerata fondamentale tra le riviste di grafica e illustrazione del Novecento.


Chwast interviene nel progetto grafico indifferentemente come designer, come art director, come illustratore. Il suo stile è sempre perfettamente riconoscibile. Disegna prevalentemente a tinte piatte e con una voluta, quasi virtuosistica, assenza di prospettiva. Un disegno brut e raffinato allo stesso tempo.

Attento sempre ai valori etici e sociali del graphic design, Seymour Chwast ha prodotto alcuni dei più duri tra i manifesti sociali e/o politici. Tra questi una segnalazione di merito senz’altro per End Bad Breath (sicuramente uno dei più bei manifesti mai disegnati contro la guerra!), un’incisione su legno colorata a mano, con lo zio Sam che alita bombardieri e che, nel testo, ironizza sui rapporti tra politica, pubblicità, propaganda, commercio. Il manifesto è del 1968 e quella guerra, il Vietnam, fu conclusa da Richard Nixon «con onore» (?) nel 1975. Dopo il 1974, e la separazione da Glaser, Chwast continuerà, fino al giorno d’oggi, ad animare i Push Pin Studios.

Fin qui uno stringato e essenziale testo biografico. Ma Chwast non è certo tutto in questa nota e, se proprio dobbiamo cercare di inquadrarlo, lo vedremmo bene, come il titolo del suo ultimo libro, tutto all’interno delle proprie ossessioni grafiche (The Obsessive Images of Seymour Chwast), alla ricerca della perfetta quadratura del cerchio nei miti disparati della modernità, tra carrozzerie rotonde d’auto sportive anni Cinquanta e scarpe pre-made in Italy, tra maschere fantasmatiche di lottatori messicani e creature “non del tutto umane”. Una raccolta di temi grafici e di ricorrenze visive che non riescono a esaurire la propria “necessità” all’interno della commissione editoriale che le ha originate ma che ritornano costantemente, riaffiorano alla coscienza della matita e del pennello e cercano il loro completo esaurimento in una sorta di “feticismo” disegnato che reinterpreta, maniacalmente, gli stessi soggetti, o le loro infinite variazioni. Alla ricerca, forse, di una pacificazione illustrata.


D’altra parte è anche difficile parlare di pacificazione tanto l’essenza stessa di Chwast, il suo modo d’essere, si compenetra indelebilmente con la sua arte di pittore, illustratore, designer. E quindi l’ossessione tout court per il disegno, e per gli oggetti del disegno, è la sua cifra significante. Ragione sufficiente e necessaria.
Scrive Steven Heller nella prefazione al volume che «... Seymour è la sua arte. Egli è davvero ciò che fa. Le sue mani sono sempre coperte d’inchiostro, i suoi abiti sono sporchi di colore, i suoi capelli intricati di pigmenti», per dire che la sua vita è tutt’uno con la sua espressività e al di fuori di quella nulla può meritare un briciolo di attenzione.



L’esperienza di illustratore di libri per bambini non è forse centrale nella biografia professionale del nostro ma vale comunque la pena di accennarne perché alcune di quelle ‘ossessioni’ di cui abbiamo parlato, compaiono anche qui, e in maniera prepotente. Ci stiamo riferendo ad una passione quasi incontrollata per le nursery rhimes, per le filastrocche, i limericks, che danno spesso origine, nel corso degli anni, ai suoi libri, dai primi tentativi degli anni '70 con Mother goooose, alla recente Ode to Humpty Dumpty.
Naturalmente in quasi nessuno dei casi Chwast si limita a un ‘normale’ lavoro di illustratore ma la sua anima di graphic designer, di progettista visivo, interviene sempre piegando la carta, tagliando bordi, fustellando pagine, scavando all’interno della filastrocca una logica progettuale che forse quella filastrocca non pensava di avere.


Così The House That Jack Built, quasi un pop up, si anima e cresce via via che la filastrocca diventa tormentone e si allunga, aggiungendo personaggi e situazioni che vengono a infittire la pagina, mentre il testo, all’inizio, con pochi versi, di corpo piccolissimo, si ingrandisce in maniera invadente fino al contadino “che semina il grano” insieme a tutti gli altri personaggi “nella casa che Jack costruì”.



Seymour Chwast, The House That Jack Built, Random House, 1973

E Mother Goooose e Limerickricks (in italiano Mamma Ooooca e Tante Riiiime, pubblicati negli anni '70 dalla Emme Edizioni), due volumetti quasi complementari, si muovono nella logica di scoprire a poco a poco il gioco della poesiola, con una piega beffarda nella pagina che nasconde  l’intero disegno fino a che la pagina stessa non viene completamente aperta e svela l’illustrazione intera. Un gioco, si dirà, ma i limericks e le nursery rhimes hanno intrigato, negli anni, le forze migliori dell’illustrazione angosassone, da Maurice Sendak (Hector Protector) a Etienne Delessert (A long long song).




Seymour Chwast, Limerickricks, Random House, 1972

Più recentemente Chwast è tornato sui suoi passi illustrando un testo di Harriett Ziefert contenente un’Ode to Humpty Dumpty, con il poveretto che, caduto da muro, e rottosi la testa, acquista nuova forma e memoria tra le mani di un giardiniere, di un gelataio, di uno scultore e di un architetto fino ad avere un bel ritratto sopra il caminetto del Re perché “…now lives in loving memory”.


domenica 28 agosto 2011

I colori delle fiabe: il rosso, il bianco e il nero

 In un precedente post, parlando dei colori delle fiabe (e naturalmente citando Michel Pastoureau) si è accennato all'origine semiotica e simbolica di Biancaneve, “… una bambina bianca, avvelenata da una mela rossa, preparata da una strega nera.


I tre colori, bianco, rosso e nero (tre è un numero ovviamente apotropaico, il nero e il rosso, nella simbologia medievale sono equivalenti e opposti al bianco), si trovano già all’inizio della fiaba:

Una volta, a inverno inoltrato, mentre i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una Regina cuciva seduta accanto a una finestra dalla cornice d’ebano. E, mentre cuciva e alzava gli occhi per guardar scendere i fiocchi, si punse un dito e tre gocce di sangue caddero nella neve.
Il rosso era così bello su quel candore, che ella pensò fra sé:
– Avessi un bambino bianco come la neve, rosso come il sangue e nero come l’ebano!
Poco tempo dopo, diede alla luce una bimba bianca come la neve, rossa come il sangue e con i capelli neri come l’ebano. Per questo la chiamarono Biancaneve. E, quando nacque, la Regina morì.


E l’opposizione bianco rosso la ritroviamo anche all’interno della mela quando la contadina strega offre il frutto alla bambina dicendo: “ Guarda, la divido per metà; tu mangerai quella rossa e io quella bianca.”
Il seguito tutti lo sanno e se non fosse arrivato il principe per la povera Biancaneve sarebbe davvero finita male.

La simbologia è comunque evidente e contrappone al bianco della neve (la purezza che viene sporcata dal rosso del sangue, la passione) il nero e il rosso. Tutti gli atti avversi alla fanciulla (bianca, ma ha in sé anche il rosso e il nero, come ricorda l'inizio della fiaba!) sono o rossi o neri. È rosso il sangue del cerbiatto (ma sarebbe stato rosso anche quello di Biancaneve se il cacciatore non fosse stato mosso a compassione), è rossa la metà avvelenata della mela, sono rosse le braci che, alla fine, saranno la punizione della crudele regina. È nera la foresta dove scappa la fanciulla, è presumibilmente nera la veste della strega.

Ma siamo poi così sicuri che il bianco, il nero, e il rosso siano contrapposti e avversi, almeno a livello simbolico? Continuando a leggere Grimm non ci sentiremmo di giurarlo.

Biancaneve e Rosarossa, ill. Roland Topor, Grasset, 1983
In Biancaneve e Rosarossa si racconta ad esempio che “… una povera vedova viveva sola nella sua capannuccia e davanti alla capanna c’era un giardino con due piccoli rosai; l’uno portava rose bianche, l’altro rose rosse. E la donna aveva due bambine che somigliavano ai due rosai: l’una si chiamava Biancaneve, l’altra Rosarossa.
Si potrebbe ipotizzare che l’una fosse un angelo e l’altra un diavolo, e anche questo sarebbe in sintonia con l’andamento delle fiabe, ma no: “Erano così pie, diligenti e laboriose, come al mondo non s’è mai visto.”
Però una differenza, che attiene alla sfera del simbolico, c’è. “Biancaneve era più silenziosa e più dolce di Rosarossa. Rosarossa preferiva correre per campi e prati, coglier fiori e prender farfalle.

Quello di attardarsi nei prati a coglier fiori e inseguir farfalle dev’essere una caratteristica dell'indole passionale del rosso e ci ricorda un’altra famosa bambina vestita di quel colore. Ma il nero, che ancora non è comparso in scena, sarà pure l’avversario, il principio del male?

Biancaneve e Rosarossa, ill. Roland Topor, Grasset, 1983

Biancaneve e Rosarossa, ill. Roland Topor, Grasset, 1983
No; il nero della favola è un grande orso con cui le bambine fanno amicizia e che, alla fine, le salverà dal malvagio e dispettoso nano, che è davvero il cattivo di turno.
Bianco, nero e rosso tutti da una parte, senza contrasti. Anche perché l’orso nero si rivelerà essere un principe fatato e, liberato dall’incantesimo, sposerà Biancaneve. E Rosarossa? Sposerà il fratello del principe e anche la vecchia madre
“… visse ancora molti anni presso le figlie, tranquilla e felice. Ma portò con sé i due rosai, che davanti alla sua finestra davano ogni anno le più belle rose, bianche e rosse.”

venerdì 26 agosto 2011

La stanza di Sara e Pietro


Nel consueto bell’articolo che Andersen, a firma di Walter Fochesato, dedica a quello che potremmo definire l’autore di copertina, nel mese di Settembre si parla di Letizia Galli, fiorentina di nascita, milanese di formazione, parigina di vita.

Proprio questo è il dato e la considerazione iniziale dell’argomentare di Walter, quell’essere uscita, nel 1990, dal mercato italiano in cui aveva operato fino a quel momento. Noi diremmo piuttosto che Letizia non è uscita dal mercato italiano ma è entrata nel mercato internazionale, dove crediamo si trovi benissimo. Saltuari, da quel momento, i contatti con l’editoria italiana e, quasi sempre, di ritorno.

L’articolo di Andersen ci ricorda che il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La mitologia. Le avventure degli dei, scritto da Laura Fischetto, e questa notazione ha stimolato un ricordo da cui sarà forse possibile trarre qualche considerazione.

Alla fine del 1987 Laura e Letizia proposero alla Aemmezeta, in seguito diventata De Agostini Junior, una serie di libretti, agili, di piccolo formato, intitolati Nella stanza di Sara e Pietro. Gli argomenti erano di semplicità disarmante: una scatola, una palla, un bottone, capitati chissà come tra le cose dei due fratelli. Seguendo a ritroso le tracce di quei piccoli oggetti si evidenziava un percorso di formazione importante: erano libri apparentemente disinvolti ma mostravano già quali percorsi misteriosi e affascinanti siano alla base dei processi di conoscenza del mondo ‘a misura di bambino’.

La Aemmezeta, allora, si proponeva come casa editrice certamente non di élite, nazionalpopolare si potrebbe dire, con prodotti non sempre raffinati per forma e contenuto, a prezzi contenuti. Diversissima dalla Emme e dalla EL, quindi, la Aemmezeta aveva però una rete di promozione e vendita propria molto forte, inserita nel territorio fino al livello della cartolibreria, allora come oggi difficilissima a raggiungersi per la piccola editoria di qualità.

Il manager della casa editrice non era per niente convinto della proposta delle due autrici e si convinse a pubblicare i tre volumetti della collana solo dopo le loro gentili, ma insistenti pressioni. Difficile sfuggire a due donne sicure e determinate!
I libri furono stampati, mandati in distribuzione e il risultato fu molto modesto, per vendita, dando quindi ‘ragione’ alle perplessità del manager che colse la palla al balzo per chiudere la collana e non pensarci più.



In una riflessione posteriore si sarebbe potuto dire che era stato un errore affidare una moto a chi è abituato ad andare in bicicletta e che l’Aemmezeta, fuor di metafora, non aveva una rete di vendita abituata a promuovere prodotti di qualità e tenore diversi da quelli suoi consueti, ma è restata sempre l’impressione che il relativo 'insuccesso' commerciale fosse stato una 'vittoria' della linea editoriale d’antan, cui derogare era rischioso e inopportuno. Una vittoria, di Pirro naturalmente, della 'preveggenza' e del 'buon senso' di quel manager, che in anticipo aveva saputo vedere il risultato. Conosceva i suoi polli, lui.

La stanza di Sara e Pietro andrebbe oggi riproposta perché, a distanza di quasi venticinque anni, conserva intatta la sua fresca vitalità, ma la considerazione cui volevamo arrivare è un’altra; come sia difficile, a volte impossibile, andar contro le opinioni, le vocazioni e, spesso, i preconcetti della rete di vendita, che resta uno degli snodi fondamentali per ogni attività editoriale, capacissima com'è, per la sua capacità o incapacità, di esaltare o affossare, di promuovere con efficacia o di rendere invisibile qualsiasi prodotto. Le forzature, o anche gli atti di normale coraggio, appaiono sempre, nelle mani sbagliate, delle pericolose fughe in avanti. E quand’anche non lo fossero possono facilmente diventarlo. Ma questa, si dirà, è la scoperta dell’acqua calda.

giovedì 25 agosto 2011

Maestri 6. Bruno Munari

Nato nel 1907 a Milano, Bruno Munari ha percorso l’arte e la cultura del progetto del Novecento lasciando ovunque tracce significative: dalle Macchine inutili (1942), ai Libri illeggibili (1950) i suoi progetti sono sempre borderline, a cavallo tra razionalità e fantasia, ma diventano anche rigorosa attività editoriale (Einaudi e Bompiani a esempio) e industriale (Danese). Muore nel 1998. I libri di Bruno Munari sono pubblicati da Corraini.

Bruno Munari


Cercando rose nell'insalata

Nella nebbia di Milano, Emme 1968
Ho incontrato Bruno Munari per la prima volta in un bancone della Feltrinelli di Firenze. Era in un piccolo libro quadrato, con la coperta dura, uno dei primi che Rosellina Archinto andava stampando per le appena nate edizioni EmmeLibri per i figli dell’architetto» si diceva allora).
Era il 1968 e il libro si chiamava Nella nebbia di Milano. Si avanzava in tram verso la periferia milanese attraverso una nebbia fatta di fogli di carta trasparente stampati in nero opaco. La nebbia era quasi tattile ma si diradava mentre ci si avvicinava «alle luci rosse e gialle del gran circo» dove si celebrava, poi, il completo trionfo della cartotecnica.
Pagine diverse, coloratissime, fustellate, tagliate, bucate. Ogni apertura una sorpresa, un’emozione nuova, un gioco diverso; perché Bruno Munari ha sempre giocato a suscitare emozioni, raccogliendo e manipolando oggettini minuti, trasformando piume, pietruzze o ritagli di carta.

Nella nebbia di Milano, Emme 1968

Ed è singolare che una delle figure più importanti del visual design contemporaneo (della cultura del progetto, quindi) fosse tanto interessato sia alla razionalità della progettazione quanto alla casualità con cui le idee possono associarsi e mescolarsi tra loro.

Ogni oggetto ha, per la curiosità fanciulla di Munari, una vita propria determinata non solo dall’uso ma anche, potremmo dire, dalle possibilità di uso che offre. Il catalogo completo della sua opera è quindi anche un campionario di oggetti possibili, di metamorfosi delle forme, di reinvenzione del quotidiano. Con quell’anarchia di fondo, quell’insofferenza delle regole, che diventa totale libertà creativa per sé e rispetto profondo per la fantasia di ognuno.

Filastrocche in cielo e terra, Einaudi, 1960
A Munari non è mai interessato il bel disegno o la bella illustrazione («Il bambino non ama le illustrazioni fatte a freddo anche se molto belle artisticamente. Il bambino sente quando l’illustrazione gioca con lui»); interessa invece che l’illustrazione si leghi con la natura intima dell’oggetto da illustrare e parli una lingua (un codice) immediatamente percepibile. Come per le Favole al telefono di Gianni Rodari che vengono illustrate con i ghirigori (disegnetti distratti, nuvole di inchiostro sparse per le pagine) di chi scarabocchia durante una conversazione telefonica. Oppure come la sua favola Cappuccetto bianco che narra la storia della bambina che incontra il lupo sulla neve.
Le pagine di quel libro, lo avrete già capito, sono completamente bianche (Cappuccetto bianco sulla neve bianca) ma proprio per questo illustrano in maniera perfetta la storia.

Rose nell'insalata, Einaudi, 1982

Bruno Munari era, ovviamente e continuamente, attirato dalle cose piccole; dalla forma di un sasso (che poteva essere un’isola), da un intreccio di fili colorati, dalle rose che si possono stampigliare con un gambo di insalata, o un grumo di carciofo, e un tampone d’inchiostro.

Scimmietta Zizi, 1953
Munari era in questo veramente simile a quel bambino che adora ricevere giocattoli in dono perchè così può tagliuzzare a piacere la carta che li avvolge e farla diventare, con poche pieghe, aeroplanino, barchetta, cappelluccio, oppure pallina da prendere a calci.

«Per progettare un giocattolo in maniera corretta – scriveva – bisogna immedesimarsi nella natura infantile. Considerare ciò che un bambino può aspettarsi da un giocattolo. E siccome il bambino è di fronte al mondo in maniera globale, non si può progettare un giocattolo che sia solo bello da vedere, senza preoccuparsi che sia anche piacevole da toccare, che sia modificabile, trasformabile, smontabile...  Meglio ancora è insegnare ai bambini a costruirsi da soli i propri giocattoli.»



Durante la preparazione della mostra Disegnare il libro (Bologna, 1987), che si occupava della grafica editoriale nel secondo dopoguerra, Munari ebbe a dire:
«Mi si chiede come sia possibile conciliare il mestiere di graphic designer con quello di industrial designer e questo con quello di illustratore e poi magari con quello di pittore [...]
Un gatto ha le unghie, ha il pelo, ha le zampe agili e la coda flessuosa: tutti elementi che fanno parte di lui e lo definiscono. La personalità di qualunque artista dovrebbe sempre essere così, curiosa e variegata, complessa, capace di intervenire su ogni singola operazione con un rapporto pieno e aderente al momento. Purtroppo spesso non accade questo; l’artista, sia che gli si chieda di progettare un barattolo o un libro, pensa in modo univoco e progetta nel suo stile senza troppi sforzi di riferimento al problema che viene posto. Eppure Leonardo non faceva così. Quando disegnava la Gioconda non si poneva il problema, anche tecnicamente, nello stesso modo di quando progettava idee di idraulica o di meccanica.
Ecco, Leonardo interveniva rapportandosi con l’oggetto, come il designer dovrebbe sempre fare


Tantibambini, Einaudi, 1971
E ancora per quanto riguarda la sua esperienza specifica sui libri per l’infanzia:
«Per un designer la collaborazione è sempre utile, spesso indispensabile. Un esempio. Quando ho progettato per Einaudi la collana ‘Tantibambini’ ho commesso, insieme però a tutto il comitato di redazione della casa editrice, l’errore di non interpellare un libraio. Cosa era successo?
Semplicemente che abbiamo cercato di coniugare la qualità con il prezzo e abbiamo dato alla libreria un prodotto a prezzo tanto basso da non incentivarne la vendita. I librai non erano motivati ad appoggiare l’operazione e si ebbero dei veri boicottaggi.
Senza il necessario appoggio della rete di vendita ogni operazione editoriale corre seri rischi.
Fu una grande delusione ma anche una bellissima esperienza complessiva. E pensare che nacque quasi per caso. Durante una riunione del comitato di redazione mi accorsi, infatti, che tutti parlavano di libri per bambini confondendoli con quelli per ragazzi. Lo dissi, e Giulio Einaudi prese la palla al balzo.“Falla tu, allora, una collana di libri per bambini!” E io la feci.
 

Tantibambini, Einaudi, 1971
Con Molina, che allora dirigeva l’ufficio grafico della casa editrice, studiammo una formula, si può dire, rivoluzionaria. Il libro non aveva cartonatura (che incideva molto sul prezzo di vendita) e il racconto cominciava direttamente dalla prima pagina-copertina. Non era questo il solo motivo di novità. Il racconto seguiva quasi sempre un taglio cinematografico che poteva essere con facilità capito dai bambini.
Alla collana collaborarono, poi, non solo illustratori ma anche grafici che per la prima volta si avvicinavano allo specifico bambino: Pino Tovaglia, Giancarlo  Iliprandi, André Francois, Ferenc Pinter, per fare solo qualche nome.
»

Testo tratto da: Andrea Rauch, Il mondo come Design e rappresentazione, Usher Arte, 2009. 

martedì 23 agosto 2011

I colori di Cappuccetto

La lingua batte sempre dove il dente duole. Così, avevamo appena finito di occuparci di Cappuccetto Rosso che Sandro Savorelli ci segnala una bella pagina dedicata al nostro eroe (eroina?!) da Michel Pastoureau, uno dei massimi studiosi europei del Medioevo, largamente noto e tradotto anche in Italia. Pastoureau, naturalmente, affronta il problema dal punto di vista che più gli è congeniale, quello del colore, e situa l'analisi della storia di Cappuccetto all'interno della simbologia medievale, che vedeva nella triade bianco-rosso-nero la composizione-accordo cromatico più significativa.
Michel Pastoureau è direttore dell'Ecole pratique des hautes études e titolare della cattedra di Storia del Simbolismo in Occidente. Tra i titoli nella sua bibliografia possiamo segnalare Il piccolo libro dei colori (Ponte alle Grazie, 2006), L'Orso. Storia di un re decaduto (Einaudi, 2008) e Medioevo simbolico (Laterza, 2009).


(...) Nelle fiabe e nelle favole, se capita che i titoli contengano termini indicanti colori, le note colorate sono rare. Bisogna leggere molto per raccoglierne un po'. Però si tratta di note forti e, come le fiabe, si tratta di retaggi che vengono da lontano. Essi si articolano principalmente attorno alla triade primitiva nero-bianco-rosso, tre colori che per secoli, se non per millenni, hanno rivestito un ruolo simbolico più marcato rispetto a tutti gli altri. L'esempio più esplicito è senza dubbio quello di Cappuccetto Rosso.

In questa celebre fiaba la domanda essenziale riguarda il colore: perché rosso? Be', si tratta di una domanda che si sono posti in pochi. In compenso si tratta di una fiaba stra-studiata, sulla quale si sa tutto o quasi, nello specifico la sua lontana origine nella cultura orale del Medioevo occidentale: è già documentata nella regione di Liegi attorno all'anno Mille, con il titolo La Petite Robe rouge, il vestitino rosso. Ma come spesso accade, la ragione di quel colore rimane oscura.

Perché rosso? Di primo acchito si potrebbero proporre spiegazioni banalmente simboliche: il rosso allude alla crudeltà del lupo, all'uccisione della nonna, al sangue che sta per scorrere. Un po' sbrigativo, anche se volessimo affermare che il lupo è il Diavolo. All'inverso, l'idea che quell'indumento rosso sia una cappellina magica, una sorta di Tarnkappe che proteggerà la ragazzina dalla crudeltà del lupo, non è sbagliata, ma rimane carente. Rischiando di apparire un po' anacronistici potremmo osare un'interpretazione psicoanalitica. Il rosso sarebbe quello della sessualità: la ragazzina, alla soglia della pubertà, avrebbe in realtà molta voglia di finire a letto con il lupo. Questa è un'interpretazione moderna che ha affascinato alcuni esegeti, in particolare Bruno Bettelheim nel suo celebre Psicoanalisi delle fiabe (in italiano Il mondo incantato, Feltrinelli, 1977 n.d.r.).

Illustrazioni di Margareth Tarrant
Partendo da tre versioni medioevali trasmesse oralmente e non da quelle ingentilite di Perrault o dei fratelli Grimm, Bettelheim sottolinea la dimensione selvaggia e sessuale della storia: il lupo invita la ragazzina a spartire con lui la carne della nonna che ha appena sgozzato e persino a berne il sangue; poi la fa mettere a letto e intrattiene con lei un commercio carnale di altra natura – o comunque se non è il lupo a violentare la ragazzina lo fa il cacciatore dopo averlo ucciso. Secondo Bettelheim il rosso simboleggerebbe questa doppia dimensione, antropofaga e sessuale.
Ma nel simbolismo medioevale dei colori il rosso ha davvero una connotazione sessuale? Non ne sono certo. Inoltre, in qualità di storico, so bene che la psicoanalisi è uno strumento che appartiene al nostro tempo e che non si può trasporre tale e quale nel passato.

Le spiegazioni di tipo storico sembrano poggiare su basi più solide, ma ci lasciano comunque insoddisfatti. Vestire i bambini di rosso è una pratica che risale a molto lontano, soprattutto in ambiente contadino: sta forse semplicemente lì la ragione dell'abbigliamento rosso della ragazzina. A meno che questa, per andare a trovare la nonna, non abbia indossato il suo capo più bello e quindi, come spesso nel Medioevo per le donne, un capo rosso. O forse il rosso allude al giorno in cui la tragica storia si svolge, la Pentecoste, una delle principali festività cristiane, quella in cui si celebra la discesa dello Spirito Santo e, in chiesa come fuori, tutto è addobbato di rosso, colore liturgico che simboleggia lo Spirito. La versione più antica della fiaba, quella datata attorno all'anno Mille, non dice però che la vicenda ha luogo il giorno di Pentecoste, ma che la ragazzina è nata in quel giorno: e sarebbe per questo votata al colore rosso.

Quest'ultima spiegazione è certo quella corretta dal punto di vista storico-culturale, ma dobbiamo riconoscere che ci lascia un po' delusi. Rimangono allora solo le spiegazioni di ordine semiologico, basate sulla struttura della fiaba e sulla distribuzione ternaria dei colori. Il rosso infatti non deve essere inteso autonomamente, ma in relazione agli altri colori, esplicitati o meno che siano: la ragazzina vestita di rosso porta una tazza di burro bianco a una nonna vestita di nero (il fatto che il lupo ne prenda il posto nel letto non cambia niente al colore del destinatario). Troviamo qui i tre colori «polari» delle culture antiche, quelli attorno ai quali si articola la maggior parte delle fiabe e delle favole che mettono in scena il colore. Nella favola del corvo e della volpe, ad esempio, un corvo nero fa cadere un formaggio bianco di cui s'impadronisce una volpe rossa. E in Biancaneve una strega nera offre una mela rossa a una ragazza bianca. La distribuzione dei colori varia ma il loro avvicendarsi si costruisce sempre attorno agli stessi poli cromatici e simbolici: bianco, rosso, nero. Dobbiamo spingerci oltre nell'analisi?


Da: Michel Pastoureau, I colori dei nostri ricordi, Ponte alle Grazie, 2011

domenica 21 agosto 2011

Maestri 5. Mario Mariotti

Mario Mariotti era nato a Montespertoli (Firenze) nel 1936.  Famoso per alcune grandi performance collettive nel quartiere fiorentino d’Oltrarno. I suoi libri più diffusi (Animani, Umani...) gli hanno fruttato il Premio Grafico Fiera di Bologna (1981) per l'infanzia. Tra gli altri premi ricevuti quelli dell’Art Directors Club di New York e del Festival della Pubblicità di Cannes. Muore improvvisamente a Firenze nel 1997.

Mario Mariotti, 1988

Nella primavera del 1988 si inaugurò a Pistoia la prima delle Aree Bambini, che in seguitò si chiamò 'gialla', una delle strutture di punta del progetto pedagogico di quell’amministrazione. Alla giornata inaugurale vennero a giocare e a lavorare con i bambini Roberto Innocenti, Emanuele Luzzati e Mario Mariotti. Mario fece foderare i tavoli da lavoro con dei grandi fogli di carta da pacchi bianca: poi chiese ai bambini seduti: «Cosa avete per colazione?» Chi aveva portato una merendina, chi un panino, chi una schiacciatina, chi un frutto. «Ma – chiese ancora Mario – non vi piacerebbe qualcosa di diverso? Un pollo arrosto, un piatto di pastasciutta, un’aragosta con la maionese? E allora disegnatevela e buon appetito!»

Mario Mariotti, Pistoia, 1988
E i bambini si disegnarono sul foglio bianco, ognuno al proprio posto, il piatto, le posate, il bicchiere, il pane, il companatico, la frutta e il dolce.

Fu un vero banchetto, raffinato e completo. Virtuale certo, disegnato e pasticciato con i colori, ma forse più reale del vero, perché ognuno aveva dato corpo e possibilità al suo desiderio.

Una mattinata di grande fantasia creativa attivata da quelle poche, semplici, parole iniziali: «… allora disegnatevela e buon appetito!»

Era difficile definirlo, Mario. Artista, certo, ma anche designer, artigiano, grafico. Suo era stato il manifesto della mostra di Henry Moore al Forte di Belvedere di Firenze (1972), forse la prima grande esposizione popolare d’arte del dopoguerra, sue le celebri copertine della collana de La Nuova Italia “Il Castoro”, costruite e fotografate tutte con objects molto trouvées, particolari inventati per rendere creativamente visibile, in qualche modo, il nome dell’autore del libro.

Oppure, sempre andando per citazioni che possono essere, e lo sono, casuali note di memoria, a lui si deve il celebre happening delle proiezioni sulla facciata brunelleschiana del Santo Spirito fiorentino con tutti (artisti celebri, studenti, amici del quartiere...) a disegnare suggestioni e tracce dentro la silhouette stampata dall’artista per completare, in un gioco però molto serio, la facciata di un capolavoro dell’architettura rinascimentale che Ser Filippo aveva lasciato incompiuta.



Mario Mariotti, Firenze, Piazza Santo Spirito, 1980

In questo Mario Mariotti era peculiare, forse unico: sempre gelosamente personale, anarchicamente creativo, ma anche, al tempo stesso, singolarmente capace di far lavorare e coinvolgere tutti nelle sue emozioni e nei suoi progetti, siano essi stati, e qui la notazione dovrebbe diventare un lungo elenco di performance urbane, i panni alle finestre di Fire enze, i giochi nell’acqua di Arnò, i trecento e passa quadri appesi alla Stazione Leopolda per Al muro; tutte installazioni collettive, preparate giocando anche su suggestioni letterarie e linguistiche.

Mario era però famoso soprattutto per le mani dipinte. Con esse aveva realizzato molti libri, per Nuova Italia prima, poi per Fatatrac, stampati e diffusi in tutto il mondo. Libri su animali ma anche su uomini (Animani e Umani... fino all’ineffabile Fallo di mano in occasione dei campionati del mondo di calcio “Italia 90”), libri di invenzione e fantasia, libri per insegnare ai bambini (ma anche agli adulti) a guardare la realtà non come è ma come dovrebbe essere e come vorremmo che fosse, come riusciamo a trasformarla magari con un segno di colore.

Diceva Mario che questi libri «[…] hanno una stessa mamma: l’ombra, e le stesse mani: le mie. Differenza è nei verbi, essere e avere. Animani è avere tra le mani un estraneo di natura selvatica, Umani è essere ridotti nelle mani con tutto il corpo che ci è naturalmente domestico».

Mario Mariotti, Animani, Fatatrac, 1980

Mario Mariotti, Umani, Fatatrac, 1987


Mariotti era innamorato della sua città e del suo quartiere (aveva studio e bottega in Oltrarno, via Toscanella) e a Firenze aveva dedicato molta della sua intelligenza e della sua arte. Ma anche molta della sua causticità pungente.
Quando fu posizionato un cassonetto per i rifiuti all’angolo tra via Toscanella e Borgo San Jacopo in una nicchia sovrastante, una delle tante che bucherellano i muri di Firenze, Mario pose una sua sculturina leggiadramente e drammaticamente perfida: un busto di donna altera che distoglie lo sguardo verso l’alto e con una mano si tura il naso. La Madonna del puzzo, oggetto devozionale contemporaneo e popolare, icona assoluta della dilagante incuria urbana.

Mario Mariotti, Firenze, La Madonna del Puzzo, 1990 ca.

Mario Mariotti era comunque un artista; e ci vien voglia di aggiungere un aggettivo, grande, che a lui non sarebbe certo piaciuto. Ma di essere artista lo rivendicava con orgoglio. Resta solo da capire, e non è facile, quale fosse la sua tela, quale il suo blocco di marmo («Che scultore sono se non scolpisco il marmo?»), quale il suo pennello.
Il suo operare artistico sembrava né più né meno che una proiezione della sua intelligenza e il supporto da animare era il contesto in cui si trovava a operare. Solo così si spiega, lo abbiamo già sottolineato, quel suo essere completamente isolato e totalmente inserito in medias res, completamente capace di lavorare con tutti rivendicando, al tempo, una sua completa e speciale autonomia creativa.

"La notte di lunedi primo marzo di quest’anno proietterò la mia immagine sulla luna nuova. Mi proietterò da una collina nei pressi di Firenze e il luogo terrò gelosamente nascosto alle eminenze e ai mercanti perché non ne facciano uso e commercio, e, nelle notti di luna nuova, vi condurrò soltanto le donne e gli uomini che si chiamano Narciso, per riprodurre nel chiaro di luna la loro immagine sconosciuta e comune."

L’artista Mariotti ovviamente non aveva uno 'stile', né cercava di averlo. Lo stile avrebbe preso prigioniera la sua intelligenza, l’avrebbe costretto a ripetersi e quindi ad annoiarsi. Ogni sua opera, ogni performance nasceva invece sempre altrove, da una parola, da un gioco, da un ricordo.
O da un proverbio: «Chi sputa nell’acqua e piscia nel foco, bene ne avrà sempre poco» è posto a esergo di uno dei suoi happening più spettacolari, Fire enze, che giocava, di conseguenza, sul contrasto tra i fuochi d’artificio e l’acqua dell’Arno.

Mario Mariotti, Fire enze, Piazza Santo Spirito, 1985


Per anni ha venduto una serigrafia, continuamente aggiornata e ristampata che lui chiamava il posto a teatro. Era la pianta della disposizione del Teatro Comunale di Firenze, quella che il botteghino usa per vendere i posti degli spettacoli. Il prezzo era quello reale e ognuno poteva comprare la sua posizione e ricevere la serigrafia con la crocetta al posto giusto. Ogni tanto la serigrafia veniva ristampata con gli aggiornamenti e così si andava a costituire il pubblico ideale degli amici di Mario, di tutti quelli che avrebbero voluto assistere (per affetto, per ironia, per complicità!) a quello spettacolo inesistente.

 Forse per ricordare Mario Mariotti non sarebbe stato male riunire tutto questo suo pubblico nel suo Teatro Comunale e tributargli un lungo, commosso, applauso di ringraziamento. Per averci fatto sorridere, per averci divertito e per averci fatto pensare.

Testo tratto da: Andrea Rauch, Il mondo come Design e rappresentazione, Usher Arte, 2009.